Archivi tag: crisi

Senza eurobond e pochi fondi: siamo ancora a rischio choc

Maurizio Ferrera

Il negoziato sul bilancio Ue s’intreccia con una discussione parallela di grande rilevanza: la possibile istituzione di un bilancio separato per l’Eurozona. La crisi ha dimostrato che la politica della Bce e il coordinamento delle politiche fiscali nazionali non bastano per far funzionare l’Unione economica e monetaria. Ciò che manca è un qualche meccanismo di stabilizzazione comune capace di far fronte agli choc asimmetrici che colpiscono (sovente non per colpa loro) alcuni paesi ma non altri.

Negli stati federali questi choc sono attutiti da due elementi (il bilancio dello stato centrale e la presenza di mercati finanziari fortemente integrati) che non sono operativi nell’Eurozona. Anche sulla creazione di un fondo di stabilizzazione comune è già emersa una linea di conflitto fra i paesi nel Nord (contrari) e quelli del Sud (favorevoli).

La Francia ha proposto la costituzione di un bilancio per l’eurozona, con risorse fra l’1% e il 2% del Pil, gestito da un ministro europeo delle Finanze.

I tedeschi vorrebbero invece utilizzare il Meccanismo europeo di stabilità (Esm), attribuendogli anche funzioni di monitoraggio e disciplina. Su pressione di Macron, Angela Merkel si è però recentemente detta favorevole alla creazione di un fondo per sostenere sviluppo e convergenza.

È ciò che ha già di fatto proposto la Commissione: 30 miliardi di risorse aggiuntive per sostenere gli investimenti in paesi colpiti da choc particolarmente acuti. L’Italia aveva lanciato l’idea di un fondo comune per la stabilizzazione della disoccupazione, una proposta che è rientrata nel tavolo delle trattative.

Il vero nodo è rappresentato dalle risorse. Per superare una soglia minima di funzionalità, il nuovo meccanismo dovrebbe avere facoltà di indebitarsi, emettendo obbligazioni comuni. Quasi impossibile che la Germania accetti. La vulnerabilità dell’Eurozona è così destinata a restare molto elevata e un’altra grave crisi finanziaria potrebbe, di nuovo, mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’euro.

Questo articolo è comparso anche su Il Corriere della Sera Economia del 30 Luglio 2018

Lascia un commento

Archiviato in Articoli, Corriere della Sera

Riformare l’euro: le responsabilità dei paesi vincitori

Durante la crisi la Germania ha abdicato alle proprie responsabilità (…) Insistere su criteri validi a prescindere a volte riflette l’interesse di chi ne è favorito – Claus Offe

Conversazione tra Maurizio Ferrera e Claus Offe

MAURIZIO FERRERA — Di recente hai scritto molto sull’Europa e sei anche uno dei pochi influenti intellettuali tedeschi che criticano apertamente le politiche europee della Germania. Vedi un nesso tra le disfunzionalità dell’Unione monetaria e la crisi sociale e politica, specialmente nell’Europa meridionale?

CLAUS OFFE — Certamente. L’Unione monetaria è divisiva: alcuni Paesi vincono, altri perdono e il divario si allarga. L’euro lega le mani dei Paesi del Sud, che sono costretti ad adattarsi alle sfide della competitività attraverso svalutazioni «interne», ossia comprimendo i salari e le spese sociali. Ma ciò rischia di essere dannoso per la crescita, l’occupazione e la riduzione del debito pubblico attraverso il cosiddetto dividendo fiscale. Le condizioni di vita delle famiglie sono marcatamente peggiorate, dando origine a un malcontento e a una protesta sempre più rabbiosa, anche se spesso mal indirizzata. I Paesi perdenti non possono più stabilire un loro specifico obiettivo di inflazione, ora fissato dalla Bce. Allo stesso tempo, i bassissimi tassi di interesse, anch’essi determinati dalla Bce, avvantaggiano i Paesi vincitori rendendo meno costoso il loro debito pubblico.

MAURIZIO FERRERA — Questo però è vero anche per i Paesi del Sud. In realtà la Germania si lamenta dei bassi livelli dei tassi d’interesse…

CLAUS OFFE — Ma omette di riconoscere che dal 2007 ad oggi ha risparmiato 294 miliardi di euro di interessi sul debito, una cifra che vale quanto un intero anno di spese federali. Un altro vantaggio per i Paesi vincitori è che il cambio fisso dell’euro funziona come sussidio alle loro esportazioni. Non stupisce che la Germania non mostri alcuna inclinazione a condividere i frutti che le regole dell’euro hanno generato per la propria economia con quei Paesi che invece da queste stesse regole sono stati indirettamente penalizzati.

MAURIZIO FERRERA — Già nel tuo libro del 2012 avevi parlato di una «Europa in trappola». Da allora gli effetti della crisi hanno provocato una profonda e allarmante questione sociale, dalla quale è molto difficile uscire.

CLAUS OFFE — Viene in mente la metafora del «mulino satanico», coniata dallo storico Karl Polanyi: ossia quell’ «abisso di degradazione umana» che si verificò agli albori del capitalismo europeo. Ciò che rende il mulino di oggi particolarmente «satanico» è che nessuno può razionalmente decidere di abbandonare l’euro. A dispetto della propaganda demagogica, un’ uscita unilaterale provocherebbe enormi danni. A meno che non si trovi un modo per riformare le regole e introdurre forme di compensazione per i perdenti, rimarremo tutti intrappolati nel «mulino». E più a lungo dura la trappola, più diventa politicamente difficile intraprendere un serio percorso di riforma. La riforma dell’ unione monetaria e l’attivazione di investimenti transazionali su larga scala finanziati dai Paesi vincitori rimane l’unica via di uscita collettivamente razionale. Ma il tempo per avviare un simile percorso si sta rapidamente esaurendo.

MAURIZIO FERRERA — Come Stato membro più grande e come maggiore potenza economica dell’Europa, ci si aspetterebbe che la Germania svolgesse le funzioni di un «egemone benevolo», capace di riconciliare i propri interessi nazionali con quelli degli altri Paesi e, più in generale, con la sostenibilità economica e politica di lungo periodo dell’Unione europea in quanto tale.

CLAUS OFFE — Durante la crisi la Germania ha largamente abdicato alle proprie responsabilità in Europa e per l’Europa. Ha cercato di imporre il proprio modello economico e sociale, in base a quella che definirei la «teoria dei vasi di fiori». Le regole che hanno funzionato così bene a casa «nostra» — così la predica tedesca — sarebbero vantaggiose anche per «voi», se solo foste in grado di rispettarle, come peraltro vi chiede la Ue. Basta usare gli stessi semi e lo stesso fertilizzante e nasceranno gli stessi fiori anche in vasi diversi. La tesi è sbagliata perché ignora o nega l’interdipendenza sistemica: la Germania è la Germania perché ha potuto trarre vantaggi, senza condividerli, dal sistema Ue e dalle interdipendenze fra Paesi — l’opposto dei vasi di fiori separati.

MAURIZIO FERRERA — Il mantra delle élite tedesche e nordeuropee durante la crisi è stato pacta sunt servanda. Un principio più che ragionevole. Ma il diritto romano prevedeva anche la clausola rebus sic stantibus: agli obblighi di un patto si può derogare in caso di mutamenti significativi delle circostanze …

CLAUS OFFE — Le regole istituzionali non sono mai «date»; sono sempre frutto di decisioni umane. Seguire la routine consente di evitare decisioni scomode o difficili. Ma gli attori sociali possono anche decidere di infrangere le regole, e talvolta ci sono buone ragioni per farlo, per esempio quando non si applica la clausola da te ricordata. A un certo punto le regole possono avvantaggiare una sola delle parti a cui si applicano; oppure la persistenza di regole uniformi finisce per creare disparità di condizioni. Certo, in assenza di buone ragioni è corretto rispettare i patti. Ma l’applicazione di una regola può fallire, o può comportare la violazione di altre regole. Tutto dipende da come valutiamo la qualità delle ragioni che ciascuna parte adduce. Per evitare rotture, in certi casi è opportuno piegare o sospendere temporaneamente le regole. Ma insistere su criteri validi «a prescindere» a volte riflette l’interesse di chi ne è favorito piuttosto che un atteggiamento genuinamente ispirato al principio secondo cui le regole vanno rispettate.

MAURIZIO FERRERA— Un’altra massima speso ripetuta è che non possiamo separare «controllo» e «responsabilità»: chi decide autonomamente una azione deve essere ritenuto responsabile delle sue conseguenze. Mi chiedo fino a che punto, in un sistema complesso come l’Unione economica e monetaria, sia davvero possibile determinare tutte le conseguenze delle azioni di ciascun governo e attribuire responsabilità univoche … Ovviamente, non sto negando che esistano le responsabilità nazionali, ci mancherebbe. Ma non credi che la retorica dei «santi» e dei «peccatori» sposata dalle élite tedesche sia cresciuta oltre i limiti dell’accettabilità politica, etica e persino epistemica (oltre un certo punto, non siamo più in grado di distinguere cause e effetti)?

CLAUS OFFE — Non potrei essere più d’accordo. I vincitori tendono ad attribuire il proprio successo a talento e impegno, mentre i perdenti preferiscono incolpare le circostanze avverse. I vincitori accusano i perdenti di non aver obbedito ai precetti della prudenza e della coerenza morale, mentre i perdenti considerano i vincitori come baciati dalla fortuna o li accusano di aver tratto vantaggi a spese altrui. Queste due narrazioni vanno valutate nel merito specifico, ma bisogna evitare che le narrative dei vincitori prevalgano: il rischio è alto in una sfera pubblica multilingue e quindi frammentata come quella dell’Ue. Per usare un noto aneddoto di Bertolt Brecht, «dove niente sta al posto giusto, c’è disordine». Dal che sembra discendere logicamente che «dove al posto giusto non c’è niente, lì c’è ordine» (l’ordine, il valore assoluto degli ordoliberali!). L’ossessione dottrinaria per l’applicazione delle regole può essere devastante. Lasciami finire con una battuta, tratta da un commento del Financial Times (6 maggio 2018). Nel 1989 un esempio emblematico di probità fiscale e austerità, ovvero il dittatore rumeno Nicolae Ceausescu, si vantava per il fatto che il suo Paese aveva un avanzo di bilancio pari a 9 miliardi di dollari. Entro la fine di quell’anno il suo regime era improvvisamente collassato e lui stesso non era più tra i vivi.

Questo articolo è comparso anche su Il Corriere della Sera del 6 Luglio 2018

Lascia un commento

Archiviato in Articoli, Corriere della Sera

L’Italia e i sospetti europei

Sulla scia del drammatico terremoto in Italia centrale, Matteo Renzi ha riaperto la questione della cosiddetta flessibilità, chiedendo a Bruxelles un consistente sconto sul deficit pubblico del 2017. Sarebbe la terza volta dal 2015. A questo punto è chiaro che non si tratta solo di iniziative giustificate da eventi imprevisti, quanto piuttosto del tentativo di rinegoziare quel “vincolo esterno” sul bilancio pubblico che negli anni è diventato sempre più stretto. E che compromette i margini di manovra considerati essenziali per il governo dell’economia.

Dal punto di vista interno, l’obiettivo appare comprensibile e legittimo. Lo stesso si può dire, però, dei dubbi e delle resistenze dei nostri partner, a cominciare dalla Germania. Osservato dall’esterno, il sistema-Italia continua infatti a produrre segnali contrastanti. Al dinamismo di alcuni settori produttivi si contrappone un preoccupante ristagno dell’economia nel suo complesso, recentemente confermato dall’Istat. I turisti che viaggiano per il nostro paese colgono gli indizi di una società prospera. E le statistiche confermano che la ricchezza privata degli italiani è fra le più elevate d’Europa. Eppure abbiamo un debito pubblico enorme e tuttora in crescita, livelli di povertà (soprattutto minorile) da Terzo Mondo, servizi pubblici scadenti. Persino dal terremoto, con il suo terribile fardello di vittime e distruzione, sono emersi messaggi ambigui. Da un lato, una grande mobilitazione di solidarietà spontanea, testimonianza di un robusto e diffuso capitale sociale. Dall’altro, la persistente diffusione di indegni fenomeni di inefficienza, corruzione e frodi nell’uso delle risorse pubbliche, in occasione del precedente terremoto.

Verso l’Europa Matteo Renzi ha adottato un discorso nuovo, tutto incentrato sulla rottura con il passato e sulle riforme. Il 31 agosto il Presidente del Consiglio ha riassunto in trenta slides altrettanti successi del proprio governo: dall’occupazione alle tasse, dagli interessi sul debito alla giustizia. Un esercizio utile, per carità. Ma chi ci osserva dall’esterno, per quanta simpatia possa avere per il nostro premier, sa bene che si potrebbero compilare altrettante slides sui vizi persistenti del sistema-Italia, nonché sulle questioni che sono rimaste ai margini dell’agenda governativa: lavoro femminile (siamo ancora il fanalino UE), ricerca e sviluppo, economia sommersa e illegale e soprattutto il drammatico e crescente divario del Mezzogiorno dal resto del paese.

E’ in questa cornice che vanno inquadrate le perplessità europee a concedere quel credito (anche finanziario) che il governo rivendica. Il paradigma dell’austerità, caro a molti commissari UE e ministri dell’Eurogruppo, spiega una parte non secondaria di queste perplessità. Ma il resto è colpa nostra. Della “politica”, in primo luogo. In buona parte, però, anche di quei corpi intermedi (sindacati, associazioni imprenditoriali, corporazioni varie) che oggi chiedono a gran voce più coinvolgimento nei processi decisionali.

Non possiamo stupirci se a Bruxelles il tentativo di rinegoziare il vincolo esterno possa sembrare una tattica opportunista, volta a comprare tempo e risorse che poi verranno utilizzate in modi non virtuosi. La credibilità internazionale è un bene difficile da conquistare. Renzi non ha torto quando dice che le riforme richiedono tempi lunghi per dispiegare i propri effetti. Siamo tuttavia sicuri che l’agenda del governo sia sufficientemente ambiziosa, basata su una diagnosi articolata e coerente di tutte le ombre? Ammesso (ma, francamente, non concesso) che lo sia, quali sono esattamente gli strumenti con cui realizzarla con tempi non biblici? Dov’è quella “squadra” di esperti, da tempo promessa, che dovrebbe progettare, monitorare, valutare le politiche pubbliche? E infine: in che misura i famosi corpi intermedi concordano sulla diagnosi di base e sulle linee strategiche per il cambiamento?

Senza risposte chiare a questi interrogativi, è difficile dissipare i sospetti. E invece di essere (se usata bene) una soluzione per far ripartire la crescita, la riduzione del vincolo esterno rischia di alimentare molti dei vecchi vizi, relegandoci in una lunga eclisse di ristagno economico e sociale.

Questo editoriale è comparso anche su Il Corriere della Sera del 8 settembre 2016.

Lascia un commento

Archiviato in Articoli, Corriere della Sera

Brexit apre spazi a Bruxelles. Dobbiamo saperli sfruttare

Come cambieranno gli equilibri di potere nella UE dopo la Brexit? La domanda è forse prematura, visto che non si sa quando il Regno Unito abbandonerà formalmente l’Unione. Ma alcuni scenari circolano già. Fra i più recenti e plausibili c’è quello appena pubblicato su Votewatch.eu, un think tank inglese.

Le previsioni riguardano il Consiglio dei Ministri. Si tratta dell’arena decisiva per il policy making europeo, non tanto sui temi di alta strategia (quelli si dibattono fra primi ministri nel Consiglio Europeo) quanto piuttosto sulle diverse questioni di politica “ordinaria”: mercato interno, ambiente, affari sociali e così via.

Nelle votazioni in Consiglio i rappresentanti della Germania hanno un tasso di insuccesso sorprendentemente alto. Dal 2009 ad oggi, Berlino è stata messa in minoranza ben 42 volte, la Francia solo 3. Il nostro paese è stato battuto 11 volte, ma ai tempi di Berlusconi. Sotto Renzi, l’Italia ha sempre fatto parte della coalizione vincente. E dal 2009 ad oggi i rappresentanti di Roma hanno votato come i francesi nel 95% dei casi.

Votewatch predice dunque che saranno Francia e Italia a trarre maggiori benefici dalla Brexit in termini di potere decisionale. A perdere saranno l’Olanda, la Svezia e la Danimarca, tradizionali alleate di Londra su molte questioni.

E la Spagna? Madrid ha perso più spesso di Francia e Italia. Ma nel 90% dei casi ha votato con loro. Nonostante la differenza di colore politico fra governi, sembra già esistere nei fatti un asse latino, capace di aggregare consensi anche nell’Est (Romania e Ungheria).

Quale linea politica seguono Francia, Italia e Spagna? La tendenza più vistosa è quella di votare a favore delle soluzioni che comportano maggiore integrazione. I tre paesi rimangono insomma i più euro-entusiasti di tutti, situandosi al polo opposto rispetto al blocco anglo-scandinavo e a quello germanico.

La Brexit lascerà un vuoto enorme, soprattutto sui dossier che riguardano i temi del mercato interno. L’ uscita di Londra aprirà però spazi oggettivi al nostro paese. Speriamo di riuscire a sfruttarli, con una attenta politica di alleanze e buone proposte.

 

Questo editoriale è comparso anche su Il Corriere della Sera del 20 luglio 2016.

Lascia un commento

Archiviato in Articoli, Corriere della Sera

Le due solidarietà

Nella lunga intervista pubblicata sul Corriere del 9 luglio, Jürgen Habermas ha severamente rimproverato la politica europea della Germania, in particolare la incapacità progettuale, l’appiattimento sullo status quo (“un frenetico stare fermi”), l’ostinata difesa di una stabilità fiscale basata su regole rigide,  e soprattutto il perseguimento sempre più sfacciato degli interessi nazionali. In patria il grande filosofo è una voce poco ascoltata. Nel dibattito internazionale, sia europeo che americano, le sue tesi sono però largamente condivise. Quali fattori hanno spinto la Germania su questa strada, che rischia di minare l’intera costruzione europea?

Vi sono innanzitutto fattori oggettivi. La grande crisi dell’euro ha reso la Germania indispensabile per qualsiasi soluzione, consegnandole tutte le briscole del gioco sugli aiuti finanziari. Berlino non ha mai formalmente «imposto» il proprio volere agli altri, quasi tutte le decisioni sono state adottate entro i solchi procedurali previsti dai Trattati. Ma a tutti (e in particolare ai Paesi bisognosi di prestiti) era ben chiaro che un euro tedesco alle condizioni tedesche era comunque meglio di nessun euro. È forse la prima volta nella storia dell’Europa moderna che un Paese ha esercitato così tanto potere senza essere anche il più forte sul piano militare. In contesti altamente integrati sotto il profilo economico-monetario, oggi le risorse remunerative (quelle che consentono di erogare premi e sanzioni economiche) sono ormai più rilevanti di quelle coercitive. L’euro-crisi ha insomma ridato alla Germania il ruolo di grande potenza europea. Ai tempi dell’unificazione e del Trattato di Maastricht, Helmut Kohl aveva potuto sacrificare alcuni interessi nazionali  perché poteva contare su un radicato e persistente consenso permissivo da parte degli elettori, in parte un lascito dei complessi di colpa per il passato nazista. Gli effetti sempre più diffusi, incisivi e visibili dell’Uem hanno tuttavia indotto l’opinione pubblica tedesca a ritirare il consenso permissivo e a valutare le politiche europee dei propri governi in maniera meno emotiva e molto più strumentale. Il ricambio generazionale ha poi gradualmente annacquato i sensi di colpa e generato una crescente voglia di «normalità politica»,  persino qualche «fantasia di potere» (l’espressione è di Habermas) in direzione isolazionista o verso progetti di una Europa tedesca. In queste dinamiche hanno  giocato un ruolo anche le preoccupazioni che gli altri Paesi UE volessero scaricare i costi dei propri aggiustamenti fiscali sulle finanze tedesche e che dunque la Germania diventasse lo Zahlmeister d’Europa, il grande pagatore.

Oltre a questi elementi di contesto, hanno però giocato un ruolo molto importante anche gli orientamenti e le tattiche della leadership. Dall’inizio dell’euro-crisi in avanti, Angela Merkel ha svolto il ruolo di  paladina del paradigma dell’austerità. È stata una delle principali responsabili della svolta intergovernativa sul piano politico e ha costantemente levato gli scudi contro i tentativi di «socializzare» l’agenda Ue. La responsabilità (in negativo) della Cancelliera risale all’ottobre del 2008, quando ella rifiutò categoricamente la proposta della Francia, sostenuta dall’Italia e da altri Paesi, di costituire un fondo anti-crisi Ue. Prima di allora, Berlino aveva sempre assecondato la logica dell’integrazione: le divergenze fra gli interessi nazionali andavano ricomposti all’interno delle strutture sovranazionali. Il «no» dell’ottobre 2008 ribaltò questa impostazione. Invece di adottare una soluzione comune, la Germania optò per la (ri)nazionalizzazione delle responsabilità: ognuno per conto suo, con i compiti da fare in casa propria. Una posizione che poi è stata ribadita molte volte negli anni successivi. Forse nel 2008 la gravità della crisi e delle sue implicazioni non erano chiare, la logica pragmatica dei piccoli passi poteva sembrare come la più promettente. Ma il “frenetico stare fermi” della Merkel ha risposto in larga parte a motivazioni elettoralistiche. Nel 2009 c’erano le elezioni federali; nei due anni successivi, elezioni amministrative in alcuni Länder cruciali per la tenuta del governo; nel 2013 di nuovo le elezioni federali. Invece di guidare l’opinione pubblica, facendo leva sull’iniziale disponibilità (confermata dai sondaggi) degli elettori ad appoggiare interventi di solidarietà finanziaria verso gli altri paesi, la Cancelliera ha rincorso ella stessa lo spauracchio dello Zahlmeister –peraltro senza neutralizzare l’ascesa di Alternative für Deutschland.

Non si capirebbe appieno la strategia della Germania se –oltre ai fattori di contesto e alle convenienze politiche- non si tenesse conto di un terzo elemento: le dottrine ordoliberali, alle quali vanno imputatate la fissazione per le regole e soprattutto la resistenza di natura “morale” che Berlino oppone sistematicamente ad ogni proposta di condivisione dei rischi.  Il pensiero ordoliberale non contempla alcuna forma di solidarietà istituzionalizzata. O meglio: la solidarietà è surrettiziamente ricompresa nel concetto di responsabilità, si riduce nel fare il proprio dovere e così non danneggiare gli altri. “Chi decide, risponde delle proprie azioni” (decisions and liability) è il mantra ripetuto da Schäuble nei consessi europei. Se le conseguenze di queste azioni richiedono l’aiuto di altri  (le istituzioni sovranazionali o altri paesi membri), questi ultimi hanno il diritto di assumere il controllo (liability only with control).

Anche a prescindere da valutazioni etico-morali, il ragionamento ordoliberale ha un serio difetto. Non tiene conto che l’Unione monetaria è molto di più di una semplice somma di parti. Ha infatti creato una rete inestricabile di interdipendenze fra le economie dei paesi partecipanti. In molti settori è diventato difficilissimo stabilire il legame fra decisioni e conseguenze all’interno e all’esterno dei confini nazionali. Inoltre, molte decisioni di rilievo sono prese a Bruxelles ed hanno un impatto enorme (ma non omogeneo) sui vari paesi, le loro economie, le loro società, il loro welfare. Un impatto che non si può prevedere ex ante, né nei tempi né nei contenuti.

All’inizio del Novecento, un grandissimo pensatore tedesco -Max Weber- descrisse la natura e il funzionamento delle “comunità di vicinato”, caratterizzate da prossimità spaziale durevole e affinità storico-culturali (proprio come la UE). In caso di bisogno o emergenza, in tali comunità devono operare principi di “sobria fratellanza”, capaci di andare al di là della “mentalità da negoziante” che regola i rapporti fra estranei. E’ proprio la sobria fratellanza che ha ispirato alcuni dei momenti più nobili della storia europea, di cui hanno beneficiato nel tempo un po’ tutti i paesi, Germania inclusa.

La cultura tedesca è fra le più ricche e feconde d’Europa. Con Kant, ha piantato i semi fondamentali per lo sviluppo dell’universalismo e del cosmopolitismo liberali, i quali hanno oggi in Habermas il suo erede forse più insigne. In un incontro privato di qualche mese fa, nella sua bella casa su un lago bavarese, il grande filosofo mi ha confessato di provare sui tempi europei un grande senso di isolamento intellettuale nel dibattito nazionale, persino di accerchiamento. E’ un brutto segnale, per la Germania e per tutta l’Unione. La cultura della stabilità e delle regole non è certo un male in sé, ma da sola non basta, servono progetti e visioni, soprattutto dopo il Brexit. Per i fattori oggettivi sopra richiamati, Berlino è il primum movens delle dinamiche europee. Anche se nel 2017 ci sono nuove elezioni federali, Angela Merkel deve convincersi che “stare fermi” non è più un’opzione. A meno di non voler condannare la UE ad un coma prolungato e irreversibile.

Bibliografia

Michael Best and Maurizio Ferrera, “Family, neighbourhood community or a partnership among strangers? A conversation on the EU” in EuVisions 15/07/2016 (www.euvisions.eu)

Biebricher, Thomas (interviewed by William Callison). “Return or Revival: The Ordoliberal Legacy.” Near Futures Online 1 “Europe at a Crossroads” (March 2016).

What do Germans think about when they think about Europe? Jan-Werner Müller, The London Review of Books, Vol. 34 No. 3 · 9 February 2012

Habermas, J. Questa Europa è in crisi, Bari-Roma Laterza 2012

Hans Kundnani L’Europa secondo Berlino. Il paradosso della potenza tedesca, Milano, Mondadori, 2015

J.Stigliz,  The Euro: and its Threat to the Future of Europe, London Penguin (esce in Agosto 2016)

Offe, C. L’Europa in Trappola, Bologna, Il Mulino, 2013

 

Questo articolo è comparso anche su “La Lettura” del 16 luglio 2016

 

Lascia un commento

Archiviato in Articoli, Corriere della Sera

Statali, il merito negato

I dipendenti pubblici sono tre milioni e trecentomila e i loro stipendi costano più di 10 punti di PIL. A prima vista, sembrano cifre enormi, ma tutto è relativo. In  confronto ad altri grandi paesi europei, siamo sotto le medie. Se però usiamo indicatori di rendimento, l’Italia scende verso il fondo delle graduatorie UE.

Pochi giorni fa, nella sua Relazione annuale, la Corte dei Conti ha puntato il dito contro le “perduranti criticità” del pubblico impiego, riassumibili in due parole: bassa efficienza e scarsa produttività. Le cause sono quelle note da decenni. Si va dall’assenza di controlli e incentivi alla “prevalenza di una cultura giuridica, a scapito di professionalità specifiche” (un giudizio importante, visto che è dato da una “Corte”); dai condizionamenti politici sull’attività gestionale alla diffusa corruzione; dall’eccessiva anzianità del personale ai suoi bassi livelli d’istruzione. E’ sempre sbagliato fare di ogni erba un fascio. Ma non si può neppure fare finta di niente.

Rispetto ai privati, i dipendenti pubblici sono in una botte di ferro per quanto riguarda il posto di lavoro. E’ di ieri una sentenza della Cassazione che conferma la non applicabilità della riforma Fornero e del Jobs act al settore statale. Una interpretazione forse non obbligata, ma oggettivamente in linea con il frastagliato quadro normativo vigente. La Corte sostiene che per estendere le nuove regole sul licenziamento ai dipendenti pubblici occorre un intervento di “armonizzazione normativa”. In altre parole: è il governo che deve muoversi. Nel settore statale i sindacati sono molto radicati e altrettanto agguerriti. E poi di mezzo ci sono milioni di voti. Questi due elementi spiegano perché nessuna delle tantissime “riforme” sia riuscita rendere la macchina pubblica più efficiente e produttiva. Il posto a vita è sempre stato un tabù che non si poteva neppure menzionare. Gli ostacoli al cambiamento sono ancora tutti lì. Ma è un segnale positivo che almeno oggi se ne discuta apertamente.

Ci sono almeno due fronti su cui è urgente passare subito dalle parole ai fatti. Il primo riguarda frodi e assenteismo. La sentenza della Cassazione riguardava il caso di un dipendente licenziato perché faceva il doppio lavoro. Il malcostume più diffuso è quello delle assenze abusive e delle vere e proprie frodi in materia di “cartellini”. Il governo si appresta a varare un decreto legislativo che dovrebbe accrescere l’effettività delle sanzioni e contrastare il diffuso lassismo di molti giudici del lavoro. Il vero test sarà il comportamento dei dirigenti, ai quali competono sia i controlli sia l’attivazione dei provvedimenti disciplinari.

Il secondo fronte riguarda gli incentivi alla produttività. Si tratta di una questione persino più importante della prima. Non solo per le sue ricadute sul piano del rendimento, ma anche perché una corretta valorizzazione del merito contrasterebbe l’omertà diffusa e attiverebbe un interesse “dal basso” a differenziare tra chi s’impegna e chi no. La prassi dei premi a pioggia deve finire, anzi essere espressamente sanzionata. Marianna Madia ha annunciato un intervento del governo per riordinare la questione del “salario accessorio”, legandolo a misurazioni puntuali dei risultati. Era ora. Nel solo comune di Roma sono stati accertai 350 milioni di premi a pioggia indebitamente erogati.

E’ vero che costa poco agli standard europei. Ma la nostra amministrazione pubblica non vale le risorse che assorbe e ha più che mai bisogno di una scossa. Per diventare più efficiente, facilitare la crescita e, non da ultimo, per recuperare la dignità perduta agli occhi dei cittadini.

 Questo editoriale è apparso anche su Il Corriere della Sera del 10 giugno 2016

Lascia un commento

Archiviato in Articoli, Corriere della Sera

La germanizzazione dell’Europa

L’ossessione tedesca per la stabilità finanziaria è principalmente associata alle immagini di Wolfgang Schäuble, il potente ministro delle Finanze, e di Jens Weidman, il presidente della Bundesbank. In effetti sono loro i più ostinati guardiani dell’austerità. Negli ultimi anni, senza peli sulla lingua, questi due personaggi hanno spesso rimproverato i paesi sud-europei per il loro lassismo, esaltando le virtù germaniche. Da qualche mese, hanno iniziato a prendersela direttamente con Mario Draghi: il suo quantitative easing sarebbe inefficace, illegale e, soprattutto, dannoso per i risparmiatori e persino per la stabilità politica della Germania.

Angela Merkel ha un’immagine più rassicurante. Tutti sanno che è contraria agli eurobond e favorevole ai “compiti a casa”. Ma il suo linguaggio è più garbato, il suo stile meno diretto, a volte addirittura titubante. La nuova politica di accoglienza dei rifugiati l’ha fatta apparire umana ed ospitale. “Suvvia, possiamo farcela”, ha detto a Monaco lo scorso settembre, annunciando l’apertura delle frontiere ai siriani. Interpretando così il ruolo di una brava mamma –Mutti, in tedesco- ferma nell’educare i propri figli ma anche affettuosa nei momenti di bisogno.

Al di là di questi tratti, qual è la vera natura di Angela Merkel come leader politico? Non si governa per più di dieci anni un grande paese senza doti di comando, senza un’efficace strategia di conquista e mantenimento del potere. Qualche anno fa, in un breve libro che fece discutere, Ulrich Beck coniò il termine “Merkievelli”: Angela sarebbe un misto di opportunismo e ambizione. Un profilo simile è stato da poco tracciato da Wolfgang Streeck, un sociologo internazionalmente noto, per molto tempo direttore del prestigioso Istituto Max Planck per la ricerca sociale di Colonia. E anche un indiscusso maitre-à-pensé della sinistra, erede della scuola di Francoforte. In un saggio uscito ai primi di maggio sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, Streeck ha proposto una definizione ancora più  critica rispetto a quella di Beck. Merkel è un leader politico postmoderno, caratterizzata da un disprezzo premoderno sia per le “cause” (i valori) sia per il popolo: un pericolo per la democrazia in Germania e per i destini dell’Unione europea nel suo complesso.

All’interno della Germania, il “sistema Merkel” è imperniato sulla de-mobilitazione selettiva degli avversari. Se emerge una questione controversa, la Cancelliera dapprima tace, poi si finge d’accordo, badando bene di non alienarsi le simpatie dell’opinione pubblica. Non prende impegni precisi. Quando passa il polverone, Angela decide poi come vuole. Cambiando spesso idea (come sul nucleare). Oppure tornando sui propri passi, come sui rifugiati. Infatti quando si è accorta che, a fronte dei flussi inarrestabili provenienti dalla rotta balcanica, l’amministrazione pubblica “non poteva farcela”, che stava montando l’opposizione esplicita della Baviera e di altri Länder e, soprattutto, che l’appoggio degli elettori stava calando, la Cancelliera ha fatto marcia indietro, rimangiandosi l’impegno a non porre limiti agli accessi e cercando di scaricare il barile su altri paesi, “europeizzando” costi e responsabilità.

La crisi dei rifugiati ha messo a nudo anche un altro tratto del sistema Merkel: la spregiudicatezza istituzionale, che ha trasformato il Cancellierato in una sorta di “Presidenza personale”. Fra settembre e gennaio, Angela ha gestito la crisi  arrogandosi prerogative di cui non disponeva. Il Ministero degli Interni è stato escluso dalle principali decisioni, l’apertura delle frontiere non è stata preceduta da alcuna delibera parlamentare o del governo. Chi faceva domande sulla base legale della nuova Wilkommenspolitik veniva tacciato di “fare il gioco della destra”, una sanzione retorica potentissima nell’ambiente politico e intellettuale tedesco. Un’altra caratteristica del sistema Merkel, secondo Streeck, è proprio la scomunica di ogni espressione e forma di dissenso. Può entrare nelle grazie del sistema solo chi è pronto alla deferenza, al sacrificium intellectus.

Anche sul versante europeo esiste un riconoscibile sistema Maerkel. Il suo tratto principale è dare per scontato che l’interesse della UE debba coincidere con quello tedesco. Ma attenzione: non si tratta di una subordinazione del secondo al primo (la via della Germania europea, a suo tempo già auspicata da Thomas Mann e da molti altri intellettuali dopo di lui), bensì del suo contrario: la via di un’Europa sempre più tedesca. Ciò che è bene per la Germania è, per definizione, bene anche per tutti gli altri Paesi membri. Per sistema Merkel, dice Streeck, non c’è nulla di immorale in questa posizione. Anzi, essa è vista come la quintessenza della moralità. L’intellighenzia merkeliana identifica il controllo tedesco della UE come il trionfo del post-nazionalismo, o meglio di quell’anti-nazionalismo che sarebbe la grande lezione prodotta proprio dalla storia della Germania. Così, in parte senza neppure rendersene conto, l’interesse nazionale di Berlino viene assunto, quasi per auto-evidenza, come moralmente superiore a quello degli altri.

Anche in questo caso, Streeck si riallaccia alle tesi di Beck. Lo studioso bavarese (tristemente scomparso l’anno scorso) aveva infatti già osservato come durante la crisi fossero riemerse alcune caratteristiche non proprio commendevoli della tradizionale cultura tedesca: la pretesa di monopolizzare la conoscenza della “verità”, la difficoltà a guardare il mondo con l’occhio degli altri, a confrontarsi con punti di vista diversi, l’inclinazione al moralismo. Una diagnosi fatta propria, in alcune recenti interviste, anche da Habermas.

Il saggio di Streeck ha fatto discutere. Sulla stampa sono apparsi diversi commenti che, pur riconoscendo i grani di verità presenti nel discorso di questo studioso, ne hanno anche messo in luce i punti deboli. Il principale è stato sottolineato da Gustav Seibt, sulla Süddeutsche Zeitung: Streeck ragiona come se non esistesse alcun Draussen, ossia un contesto esterno alla Germania caratterizzato da altri attori e da rapide trasformazioni, all’interno del quale la Cancelliera si trova ogni giorno a decidere. Ciò che sembra “opportunismo” visto nell’ottica del sistema politico nazionale spesso è un inevitabile aggiustamento a improvvisi cambiamenti esterni: il Draussen, appunto.

La ricezione nel complesso tiepida delle posizioni di Streeck è anche dovuta al suo radicale pessimismo nei confronti dell’integrazione europea, da lui vista essenzialmente come cavallo di Troia del neo-capitalismo: la tesi espressa nel suo ultimo libro, Tempo guadagnato. Per Streeck oggi la vera questione, non è se, ma come proteggere l’Europa dagli artigli della Cancelliera, smantellando Schengen, Dublino e lo stesso euro.

Quale che sia il giudizio sul supposto “sistema Merkel” per la democrazia tedesca, lo scenario di una Germanizzazione dell’Europa non è solo un’invenzione degli eredi del pensiero critico francofortese. Si tratta di un’ipotesi ben presente e molto discussa nel dibattito europeo, anche da parte di chi è a favore dell’euro e non crede ai complotti. In un recente volume dal titolo Europe’s Orphan, il giornalista Martin Sandbu, firma di punta del Financial Times, ha ad esempio apertamente denunciato le élites tedesche per le loro pretese egemoniche (assecondate dall’opportunismo francese) e per le loro inclinazioni pedagogiche. Sandbu è convinto che l’Unione monetaria sia stata una buona idea e possa essere conservata, purché Berlino abbandoni l’idolatria della stabilità e la condanna moralistica del debito.

Già, ma cosa potrebbe indurre questa svolta culturale e politica? Il culto della stabilità (e in parte anche il moralismo) sono estremamente radicati in Germania, affondano le loro radici nella tragica esperienza di Weimar e nelle dottrine ordoliberali elaborate da alcuni padri fondatori della Repubblica federale: da Eucken a Ehrard. In un recente convegno presso la Hertie School of Government di Berlino, diversi studiosi hanno sottolineato come  l’ordoliberalismo (definito nel titolo come An irritating German Idea)si sia gradualmente trasformato in una “religione civile” per l’establishment tedesco, soprattutto in seno alla CDU. Secondo questa tradizione di pensiero, il fine del potere pubblico è quello di imbrigliare società e politica tramite le regole di mercato e la disciplina morale. Un approccio che ricorda il teismo leibniziano, imperniato sulla metafora di quell’”orologio perfetto” che Dio si limita ad osservare, dopo averlo creato. Nel sistema ordoliberale – come raccomandava Lutero-  non c’è posto per i debitori: indebitarsi è “colpa” (Schuld).  Chi dubita della presa che queste idee hanno sull’élite tedesca non ha che da leggere alcuni dei discorsi che il presidente della Bundesbank pronuncia nel suo paese. Nel 2014, a Kronberg, Weidman discettò di storia e menzionò i provvedimenti di amnistia adottati nel Settecento dalla Prussia, precisando –con apprezzamento- che essi escludevano “assassini e debitori”.

Lo scenario della Germanizzazione ovviamente non conviene agli altri Paesi UE, sicuramente non a quelli latini. Non è per ora plausibile, tuttavia, che si formi un qualche contrappeso. La Francia ha paura dei mercati, considera conveniente restare sotto le ali protettive di Berlino fingendo di co-gestire quella relazione speciale fra le due capitali ormai visibilmente superata. La Spagna è senza governo da molti mesi e non è detto che riesca a recuperare la tradizionale stabilità politica. L’Italia si sta dando molto da fare. Ma le sue debolezze economiche e il suo scarso capitale reputazionale (basa leggere il penultimo numero dell’Economist) le impediscono di giocare in prima fila. Non resta che sperare nelle dinamiche del Draussen. Cioè che le sfide esterne alla UE (a cominciare da quelle relative alla sicurezza) inducano la Cancelliera e il suo “sistema” a perseguire l’unica strategia che consente oggi all’Unione di consolidarsi e, prima ancora, di sopravvivere: un’autentica europeizzazione, il più possibile depurata dalle pulsioni germanizzanti.

Questo articolo è apparso anche su “La Lettura” del Corriere della Sera del 22 maggio 2016.

 

Bibliografia

W.Streeck, Merkels neue Kleider, FAZ, 4 maggio 2016 (apparso in prima versione su The London Review of Books, 31 marzo 2016)

W.Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Il Mulino, 2013

Martin Sandbu, Europe’s Orphan: The Future of the Euro and the Politics of Debt, Princeton University Press

Gustav Seibt, Opportunismus ohne Obergrenze, Süddeutsche Zetung, 7 aprile 2016

Ulrich Beck, Europa tedesca, Laterza, 2013.

Ordoliberalismus as an irritating German Idea. Convegno internazionale, Berlino, Hertie School of Governance, 13-14 maggio 2015 (http://www.resceu.eu/events-news/events/conference-ordoliberalism-as-an-irritating-german-idea.html)

Michael Braun, Mutti. Angela Merkel spiegata agli italiani, Laterza, 2015

Donatella Campus, Lo stile del leader.Decidere e comunicare nelle democrazie contemporanee, Il Mulino, 2016

Lascia un commento

Archiviato in Articoli, Corriere della Sera

L’equità cheMerkel chiede vale anche per la Germania

Nella sua recente visita a Roma Angela Merkel ha parlato di immigrazione, governo dell’eurozona e politica estera. Sui contenuti è rimasta sulle generali, ma ha toccato alcune questioni di metodo fondamentali per il futuro dell’Unione.

Innanzitutto ha proposto di collegare i tre temi e di cercare un “grande compromesso” basato sul mutuo vantaggio. Nella sua ormai lunga storia, l’Europa è riuscita a superare molte crisi tramite ciò che gli esperti chiamano package deals, ossia accordi basati su ampi “pacchetti” di misure, in modo che ciascun paese membro possa guadagnare qualcosa. L’idea della Cancelliera non è quindi originale. Anzi,il Presidente della Commissione Juncker aveva già proposto qualcosa di simile nel Consiglio europeo dello scorso febbraio. Il suo piano era però clamorosamente fallito per la strenua opposizione dei paesi centro-orientali sul fronte dell’immigrazione. L’importante novità emersa dall’incontro romano è la disponibilità della Cancelliera ad esporsi in prima persona per definire il “pacchetto”.

La seconda questione di metodo riguarda il processo di integrazione in generale. Angela Merkel ha rilanciato l’ipotesi di creare un nucleo centrale di paesi (Italia inclusa) interessati a condividere la sovranità in aree cruciali come sicurezza e  controllo delle frontiere, fisco, politica estera. La cosiddetta integrazione differenziata è già un fatto in molti ambiti: dall’Unione monetaria a Schengen, dal controllo del crimine al diritto di famiglia. Ma con la Brexit rischia di trasformarsi in una gara al ribasso. Anche se prevalesse –come ci auguriamo- l’opzione remain (restare nell’Unione), il referendum inglese aprirà un lungo negoziato su deroghe e uscite selettive dalle regole vigenti e molti altri paesi si accoderanno. Il progetto di una Unione politica ristretta darebbe un segnale importante in direzione opposta: differenziazione al rialzo.

Sempre sul metodo, Merkel ha detto poi una terza cosa, passata un po’ inosservata. Per far avanzare l’Europa, “abbiamo bisogno di equità” nelle relazioni fra paesi. La Cancelliera ha fatto l’esempio dell’immigrazione: i paesi del Nord (a cominciare dall’Austria) non possono scaricare su quelli del Sud responsabilità e costi per controllare i flussi dal Nord Africa.  Si tratta infatti di un problema comune, che richiede criteri distributivi condivisi. Ben detto: ma l’equità deve valere anche per la gestione dell’Unione economica e monetaria. La recente offensiva della Bundesbank contro il debito italiano, la rigidità di Schäuble sul risanamento greco non vanno in questa direzione: attribuiscono meriti e colpe in base a parametri che privilegiano platealmente l’interesso tedesco. A Roma Merkel ha riconosciuto che anche la Germania ha il suo carico di “compiti a casa” da fare. Dovrebbe ripeterlo a Francoforte e Berlino. Mettendo in cima alle priorità la riduzione del surplus commerciale tedesco, che tarpa le ali all’intera economia dell’Eurozona.

Certo, una conferenza stampa a Roma può lasciare il tempo che trova. La Cancelliera è nota per una tattica politica che gli esperti chiamano “de-mobilitazione selettiva”: fingere di essere d’accordo con gli interlocutori per dar loro un contentino, senza però entrare nel merito dei temi controversi, in modo da tenersi le mani libere. In un articolo apparso qualche giorno fa sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, il politologo Wolfgang Streeck ha attaccato senza mezzi termini il “sistema Merkel”, basato su machiavellici opportunismi e sul disegno di imporre una stretta egemonia tedesca sulla UE e i suoi destini. Streeck spesso esagera, ma non è una voce isolata ed è ben possibile che nella sua diagnosi ci sia un grano di verità.

Le tre questioni di metodo sollevate a Roma dalla Cancelliera sono condivisibili, promettenti e in linea con gli interessi italiani. Il nostro governo farà bene però a non abbassare la guardia e a prepararsi in modo accurato sui contenuti, continuando a fare proposte. Il richiamo all’equità non va lasciato cadere. Purché si tratti di autentica “equità europea”, che vincoli la Germania a comportamenti responsabili verso tutta la UE e a condividere i rischi a fronte di tutte le sfide comuni.

Questo editoriale è comparso anche su Il Corriere della Sera del 9 maggio 2016.

Lascia un commento

Archiviato in Articoli, Corriere della Sera

Ue, bene la rinuncia allo scontro. Ma ora servono alleati solidi

Finalmente Matteo Renzi ha deciso di  uscire dall’angolo. Il position paper di ieri abbandona la linea della contrapposizione verticale (Italia contro Bruxelles) e adotta una strategia “orizzontale”, volta a cambiare dall’interno l’agenda europea. Il documento parte da tre condivisibili premesse. Le politiche di austerità  perseguite da Bruxelles ostacolano la crescita. Mancano risorse e incentivi  per fronteggiare le emergenze, soprattutto quella dei rifugiati. Infine, l’inefficacia di  questa Europa alimenta l’Euroscetticismo e crea preoccupanti conflitti fra Nord e Sud, fra Est e Ovest.

Nelle proposte italiane ci sono luci e ombre. Alcune idee sono generiche e ribadiscono posizioni già note e condivise. La richiesta di  flessibilità segue il copione degli ultimi mesi, tutto imperniato sul confronto “verticale” contro Bruxelles (e Berlino). Molte proposte sono però innovative. In maniera indiretta, Renzi e Padoan sollecitano Bruxelles ad attuare le regole non solo sul fronte dei deficit, ma anche degli avanzi di bilancio. E’ una chiara bacchettata alla Germania, che non impiega il proprio surplus per stimolare la domanda e dunque agire come “locomotiva” per la crescita di tutti. Il documento si schiera poi nettamente a favore di politiche di mutualizzazione dei rischi al fine di produrre “beni comuni” europei. Si raccomanda con parole chiare l’emissione di eurobond per finanziare investimenti e una seria politica comune di controllo delle frontiere esterne, in modo da salvare Schengen e fronteggiare la sfida dei rifugiati. La richiesta di obbligazioni comuni non piacerà alla Merkel: in più di un discorso, la Cancelliera ha ripetuto “fin che ci sarò io gli eurobond non passeranno”.  Non susciterà entusiasmo neppure la richiesta di una garanzia comune sui depositi, che Schäuble vorrebbe subordinare all’introduzione di requisiti più stringenti sui patrimoni delle banche.  Quanto al cosiddetto Ministro del Bilancio dell’eurozona, il position paper appoggia l’idea, ma a patto che la nuova figura disponga di un proprio budget, faccia parte della Commissione ed abbia un collegamento con il Parlamento europeo. Importanti sottolineature, volte (giustamente) a contrastare la deriva intergovernativa e tecnocratica degli ultimi anni. Un altro piatto forte è la proposta di un’assicurazione UE contro la disoccupazione. Padoan ha lavorato molto su questo fronte, già durante il semestre di Presidenza. Lo schema servirebbe a far fronte agli shock asimmetrici e darebbe un segnale concreto alle opinioni pubbliche: la UE “apre” i sistemi nazionali, ma contribuisce a compensare i costi dell’integrazione.

Il documento italiano ha uno stile tecnico ed è tutto rivolto agli altri leader UE  e i loro consulenti. Sarebbe utile produrre un secondo testo, più articolato anche dal punto di vista simbolico. Magari accompagnato da un’ ambiziosa iniziativa pubblica che faccia riferimenti espliciti a quell’Europa dei valori spesso evocata dal  nostro Premier.

Ora deve partire la ricerca di alleanze e sostegni. Il processo di integrazione si è irreversibilmente politicizzato, è finita l’epoca del consenso permissivo da parte degli elettori, dei negoziati di vertice, del governo dei numeri. Per salvare la UE, occorre che i leader nazionali facciano una seria politica per l’Europa, guardando al lungo periodo. Se  Renzi sarà capace di aprire nuovi giochi ( “stanando” la Germania), l’Europa non potrà più chiamarlo “monello”. E all’Italia andrà riconosciuto il merito di aver contribuito a spostare la bilancia del progetto europeo dall’attuale spirale disintegrativa ad un fattivo e indispensabile rilancio.

 

Questo editoriale è comparso anche su Il Corriere della Sera del 22 febbraio 2016

Lascia un commento

Archiviato in Articoli, Corriere della Sera

L’Unione e il welfare limitato per gli stranieri

Meno welfare agli immigrati, anche quelli che provengono da altri paesi UE. Con questa proposta, David Cameron ha lanciato da qualche mese un attacco alla libertà di movimento dei lavoratori, uno dei pilastri portanti del mercato interno e dell’intera costruzione europea. Le reazioni di Bruxelles e dei paesi dell’Est sono state finora molto negative. Ma dalla parte del premier inglese potrebbe ora schierarsi uno strano “compagno di letto”: il partito socialdemocratico tedesco. Durante le feste, la Ministra Andrea Nahles (SPD) ha infatti proposto di escludere i migranti UE dai sussidi di disoccupazione per almeno un anno dopo il loro arrivo. Pochi giorni fa, Angela Merkel si è dichiarata d’accordo. Sulla scia della crisi dei rifugiati, l’opinione pubblica sta diventando sempre più tiepida rispetto alla politica delle porte aperte. Un recente sondaggio ARD rivela che oggi due terzi dei tedeschi vorrebbe chiudere le frontiere, dodici punti percentuali in più rispetto all’estate scorsa.

Come valutare le richieste britanniche, ora in parte condivise da Berlino? I migranti intra-UE sono circa 14 milioni. La loro incidenza sulla popolazione autoctona è maggiore nel Regno Unito, in Germania, nei paesi nordici e nel Benelux. I dati economici segnalano che per i paesi riceventi i benefici in termini di tasse e contributi sono superiori ai costi in termini di welfare. E’ però vero che, durante la crisi, in alcune aree geografiche e settori occupazionali vi è stata concorrenza diretta fra immigrati e lavoratori nazionali, soprattutto quelli con basse qualifiche. In molte città del Nord Europa le comunità di polacchi, romeni, bulgari si concentrano in alcuni quartieri, rendendo particolarmente visibile la loro diversità linguistica, culturale, spesso di costumi. E non sono mancati casi di opportunismo e frodi nella fruizione delle prestazioni sociali. Come ben sappiamo, si tratta di fenomeni che riguardano anche i nativi. Ma quando i protagonisti sono gli immigrati, lo scalpore è più alto.

Gli elettori nazionali tendono a non distinguere fra migranti intra o extra-UE e sovrappongono gli effetti dell’integrazione europea con quelli più generali della globalizzazione. I partiti euroscettici sfruttano questa confusione, cavalcano e spesso istigano paure e diffidenze, diffuse in particolare fra i cittadini economicamente più vulnerabili. Per ora, nella maggior parte dei paesi riceventi i favorevoli a mantenere le porte aperte ai migranti intra-UE sono ancora la maggioranza, intorno al 51 percento. Ma i margini sono stretti, e rispetto a due anni fa il calo è stato massiccio.

Ad oggi, il diritto UE vieta le disparità di trattamento fra nazionali e non nazionali. Che piaccia o no, Bruxelles dovrà però rassegnarsi ad ammorbidire qualche regola. Bilanciare la salvaguardia fra libertà di movimento e il “cattivo umore” degli elettori non sarà certo facile. Le richieste di Cameron (quattro anni di attesa prima di aver diritto al welfare) sono eccessive. La soluzione sta nel mettere a punto percorsi di accesso differenziato. Ai migranti che s’inseriscono da subito nel mercato del lavoro andrebbero riconosciuti, come oggi, pari diritti dal primo giorno. Per i migranti senza lavoro, i non attivi e i familiari a carico (soprattutto se restano nei paesi di origine) si dovrebbero invece ammettere limitazioni.

L’Unione europea non è solo uno spazio economico, è anche un insieme di “case nazionali” con proprie tradizioni di solidarietà e pratiche di condivisione sociale. Almeno in una prima fase, è comprensibile che il migrante UE non venga percepito come concittadino, anche se ha un lavoro. L’essenziale è che non venga respinto, né trattato come un intruso o, peggio ancora, sfruttato: salari più bassi, lavoro irregolare, inadeguata tutela sindacale e così via. Questa è la linea rossa che non deve essere oltrepassata. In gioco non è solo la salvaguardia del mercato unico (libertà di circolazione), ma anche il legame fra il progetto europeo e i valori dell’eguaglianza e della pari dignità. La lingua inglese ha una apposita parola per denotare chi non è più straniero ma non è ancora un cittadino a pieno titolo: denizen. Per chi si trova in questa condizione, le regole da imporre sono quelle dell’ospitalità fra vicini, basate sulla reciprocità e la buona condotta. Da parte di chi viene ospitato, ma anche di chi ospita.

Questo articolo è comparso anche su Il Corriere della Sera dell’11 gennaio 2016

Lascia un commento

Archiviato in Articoli, Corriere della Sera