Archivi del mese: aprile 2020

Sorprese da Bruxelles

Maurizio Ferrera

La strada sarà in salita, come sempre il diavolo si nasconderà nei dettagli. Ma un progresso c’è sicuramente stato. Angela Merkel ha avuto il coraggio di dire al proprio Parlamento che la Germania dovrà essere pronta a contribuire molte più risorse al bilancio europeo, in spirito di solidarietà. E ha giustificato questa affermazione confermando che “l’impegno nei confronti di una Europa Unita coincide con la ragion di stato tedesca”, un’affermazione degna di Helmut Kohl. Nel Parlamento europeo, i colleghi di partito della Cancelliera non hanno avuto lo stesso coraggio. Verdi e socialdemocratici tedeschi hanno però votato compatti, entro il gruppo dei Socialisti e Democratici, a favore dei Recovery bonds. Lo hanno fatto anche i membri olandesi di questo gruppo: una vera sorpresa. Le dinamiche interne al Parlamento europeo fanno sperare che in questa istituzione possano gradualmente ricomporsi le contrapposizioni fra paesi che dominano invece il confronto in seno al Consiglio. Il compromesso del 23 aprile ha, almeno temporaneamente, spento una fase di aspri conflitti che rischiava di far nuovamente precipitare la Ue nella stessa “crisi esistenziale” di mezzo decennio orsono. E c’è da sperare che si attenui all’interno dei vari Paesi anche la giustapposizione fra europeisti e euroscettici. Come vanno le cose nel nostro Paese su questo fronte? In Italia il giudizio degli elettori sulla risposta Ue alla crisi Covid­19 è in media piuttosto negativo, anche fra i simpatizzanti dei partiti di governo. Ma ciò non ha alimentato sentimenti anti­Ue. In base a un sondaggio Yougov (www.euvisions.eu), intorno a metà aprile il 71% degli elettori si diceva a favore di un maggior coordinamento europeo, piuttosto che per soluzioni decise in autonomia dal governo nazionale. Fra gli elettori del Pd la percentuale era pari all’88%. Anche fra quelli dei 5 Stelle il dato superava di un punto quello medio. L’indicazione più sorprendente riguarda l’elettorato della Lega e di Fratelli d’Italia. Anche all’interno di questi bacini, infatti, nella seconda settimana di aprile la maggioranza si schierava a favore del coordinamento Ue: 51% nella Lega, 65% in Fratelli d’Italia. Come si ricorderà, Salvini e Meloni hanno cercato di gridare al lupo agitando lo spauracchio del Mes. Evidentemente questa polemica, largamente pretestuosa, non è stata molto efficace. Sulla stampa internazionale si è parlato molto delle esitazioni di Bruxelles nell’aiutare l’Italia all’inizio della crisi. Qualcuno ha tuttavia anche ironizzato sul fatto che gli italiani siano sempre con il cappello in mano, pronti a rivendicare solidarietà da parte degli altri ma restii a dare. È sicuramente vero che nei rapporti con la Ue ci siamo trovati più spesso nelle condizioni di chi chiede piuttosto che il contrario. Ma non bisogna esagerare: siamo infatti un contribuente netto al bilancio Ue (versiamo più di quanto otteniamo) e partecipiamo alle istituzioni finanziarie Ue (ad esempio l’odiato Mes) non come debitori, ma come garanti. Il sondaggio Yougov mette in luce un aspetto inatteso. Nel caso in cui un altro paese si trovasse in gravi condizioni di necessità, la maggioranza degli italiani sarebbe favorevole ad offrire aiuti, come del resto avvenne nel caso nella crisi greca. Gli elettori della Lega e di Fratelli d’Italia sarebbero contrari per il 60% circa. Ma certo non compattamente contrari. L’euroscetticismo, o meglio il sovranismo, hanno negli ultimi anni dominato la scena politica italiana. Molti commentatori e studiosi hanno suggerito che l’Italia fosse il caso di punta di una nuova tendenza: la riconfigurazione dello spazio politico intorno alla dimensione apertura­chiusura invece che alla dimensione più tradizionale destra­sinistra. Da un po’ i dati segnalano che il sovranismo ha allentato la sua presa, almeno per quanto riguarda l’appartenenza all’euro a alla Ue. Nei Paesi del Nord, le ricerche politologiche rilevano da qualche anno una crescente disponibilità degli elettori a sostenere politiche europee più solidaristiche. Certo, continuano ad essere presenti minoranze intense sfavorevoli ad ogni trasferimento finanziario fra paesi. Il potere di ricatto di queste minoranze è superiore alla loro consistenza numerica, i partiti filo­Ue non possono perciò ignorarle. Ma è anche possibile che il pendolo inizi ad oscillare in direzione contraria. I Verdi tedeschi stanno diventando una minoranza intensa (e consistente, sia in Germania che nel Parlamento europeo) a favore di più integrazione politica e sociale. Per chi crede nell’Europa, è certo troppo presto per cantare vittoria. Ma forse possiamo tirare un primo respiro di sollievo. In passato, i progressi dell’integrazione sono sempre stati promossi dalle élite piuttosto che dagli elettori. Non è però da escludere che la dinamica possa ribaltarsi. E che proprio la pandemia offra l’occasione per un inatteso sorpasso dell’Unione degli Stati da parte dell’Unione dei cittadini.

 

Questo articolo è stato anche pubblicato su Il Corriere della Sera del 28 Aprile 2020

 

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Per un illuminismo digitale

– Cogliere le opportunità, mitigare i rischi: il governo della rivoluzione tecnologica –

Maurizio Ferrera

 

Stiamo varcando le porte di un nuovo tipo di civiltà: quella digitale. A questo epocale spartiacque è dedicato il libro diGustavo Ghidini, Daniele Manca eAlessandro Massolo in edicola oggi con il “Corriere”. Ad alimentare il cambiamento sono soprattutto le nuove tecnologie. Internet e la telefonia smart stanno portando alla connettività di tutto, comprese le “cose”. I big data mettono a disposizione vasti insiemi di informazioni analizzabili tramite sofisticati algoritmi. L’intelligenza artificiale consente a robot e macchine di imparare a svolgere in quasi­ autonomia molte funzioni. Si può produrre a distanza grazie alla manifattura “additiva” e alla stampa 3D. Le blockchain immagazzinano dati in registri digitali la cui integrità è garantita dall’uso di complesse crittografie. La lista potrebbe continuare. Gli autori del libro hanno perciò ragione a intitolarlo La nuova civiltà digitale: non occorre essere marxisti per capire che i nuovi modi di produzione stanno avendo ripercussioni a cascata nelle sfere della società, della politica e della cultura.

Di fronte a questi cambiamenti si confrontano due narrazioni. Una catastrofista: sarà la fine del lavoro umano, l’avvento del Grande Fratello. L’altra è trionfalista: ci libereremo della famosa condanna biblica, saranno le macchine a fare fatica al nostro posto. Il messaggio del libro è più sobrio e pacato: dobbiamo ragionare sulle luci e sulle ombre di ciò che sta accadendo, “separare il grano dal loglio”. Che la civiltà digitale abbia effetti positivi sul piano della prosperità materiale, delle opportunità di scelta, dell’accesso alla conoscenza non ci possono essere dubbi. Ma occorre tenere ben presenti anche gli effetti negativi. Se impariamo a conoscerli, forse li possiamo neutralizzare.

Prendiamo il mondo del lavoro. Invece di usare le macchine, gli umani si limiteranno a monitorarle, definendo ciò che deve essere fatto e come, e poi usando i robot per ottenere esattamente il risultato voluto. Creatività, immaginazione, intelligenza emotiva saranno i fattori determinanti, spariranno progressivamente le mansioni ripetitive e poco gratificanti. C’è però anche il rischio di nuove forme di monitoraggio e controllo invasivo sulle prestazioni lavorative. Nasceranno nuovi settori produttivi e dunque posti di lavoro “di qualità” aggiuntivi (specialisti di big data, social media manager, ingegneri esperti in cognitive computing, architetti per la cosiddetta “internet delle cose”, sviluppatori di blockchain e così via). Ma sta già nascendo un nuovo sottoproletariato digitale, soprattutto intorno alla gig economy, il lavoro tramite piattaforme digitali. E si stanno creando nuove diseguaglianze. La pandemia Covid­-19 ha platealmente mostrato gli effetti socialmente dirompenti e iniqui causati dalle diverse opportunità di accesso al lavoro, al consumo, all’istruzione digitali.

Sotto il profilo sociale, aumentano le possibilità di comunicazione, interazione, scambi su scala globale. E ormai basta un click per accedere ad ogni tipo di informazione e di testo: la biblioteca di Babele immaginata da Borges è già una realtà. Gli elettori possono farsi un’idea in tempo reale di che cosa fanno i politici, ad ogni livello di governo. Ma c’è l’altro lato della medaglia. L’inondazione di fake news, in primo luogo. Ma anche la difficoltà di orientarsi fra tante news plausibili e fondate, che però dicono cose diverse (sul Covid­-19 gli scienziati sono divisi, non si sa a chi dare credito). Il mondo dei social consente a chiunque di dire qualunque cosa, ma molti usano male questa opportunità. Le “camere d’eco” delle comunità online sono brodo di cultura dei discorsi d’odio (razziale, etnico, religioso e così via). Molti utenti finiscono per esibire informa esaltata il loro ego individuale, “rischiando di trasformare la società in un insieme di monadi”, come osservano giustamente gli autori. La politica può dar luogo alle pratiche manipolatorie della post­verità e sfruttare i big data per istituire subdolamente uno “stato di sorveglianza”: un rischio da non sottovalutare sulla scia delle tecniche di tracciamento in corso di sperimentazione per via del Covid­19.

Una parte molto interessante del volume è la discussione delle possibili contro­misure. Nella sfera del lavoro, la strada maestra è la formazione (che deve proseguire per tutto l’arco della vita). Ma l’approccio deve essere pragmatico, basato su un dialogo stretto con il mondo delle imprese. Siccome servono risorse, occorre valutare come “tassare” la digitalizzazione. Per l’uso dei robot al posto degli umani, per esempio. Oppure ridisegnando il prelievo sui giganti della rete e sulla loro quotidiana predazione dei dati personali degli utenti, a scopo di lucro. Molto può e deve essere fatto tramite la regolazione e la lotta agli oligopoli.

Nella sfera dell’informazione e della cultura, gli autori suggeriscono di iniettare robusti “anticorpi illuministici” nella scuola (fra i docenti in primis) e in tutti i canali che formano i professionisti dell’informazione. Senza questo filtro di base, le sanzioni o i controlli non servono, persino il fact checking diventa irrilevante, rimbalza su pregiudizi e barriere cognitive difficili da superare. La metafora degli anticorpi illuministici è bella e calzante. Purché sia chiaro che ciò che serve non è la smania enciclopedica, ma l’esercizio critico e scettico della ragione. Imparare a pensar bene e a far funzionare in modo corretto il concetto di verità, ossia la funzione mentale che attiviamo per verificare, appunto, il legame fra ciò che si dice e si ascolta e “le cose come stanno”.

Il libro fornisce spunti interessanti anche su come la civiltà digitale sta cambiando il “mondo della vita”, quello entro cui conduciamo la nostra concreta esistenza insieme agli altri. Qui il nodo centrale è il rapporto fra esperienza offline e online. Il filosofo Luciano Floridi ha coniato un nuovo termine a riguardo: l'”onlife”, una sfera con confini sempre più sottili fra il reale e il virtuale, fra uomo, macchina e ambiente, fra essere e interagire. L’avvento della civiltà digitale comporterà una revisione profonda dei quadri cognitivi che abbiamo sviluppato durante la modernità per orientarci nel mondo e attribuirgli un senso. È la sfida dell’iperconnettività, del possibile salto, per dirla con Yuval Noah Harari, dall’Homo sapiens all’Homo deus. Dibattiti e scenari affascinanti, ma da trattare con molta cura. Per usare il motto di Ghidini, Manca e Massolo, dobbiamo prestare sempre attenzione a separare il grano dal loglio. E a temperare, con il pensiero critico, sia le derive catastrofiste sia quelle trionfaliste.

 

Questo articolo è stato anche pubblicato su Il Corriere della Sera del 27 Aprile 2020

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Per un governo del mondo

conversazione di Maurizio Ferrera con Vinod Aggarwal

II 15 aprile la Regione Lombardia ha lanciato le «quattro D» in vista della riapertura del 4 maggio. Le quattro condizioni irrinunciabili sono state identificate in: Distanza (almeno un metro di sicurezza tra le persone), Dispositivi (mascherine XT tutti ), Digitalizzazione (lavoro da casa per le aziende che lo possono prevedere), Diagnosi (test sierologici). «La Lettura» ha provato a immaginare «quattro R» che potrebbero incoraggiare l’uscita dall’emergenza: Ricostruzione (la necessità di nuove governarne planetarie in un mondo che sembra volerne fare a meno), Rinascita (una primavera laica), Resurrezione (una primavera dello spirito) e Rinascimento (una primavera dell’arte nell’anno in cui si celebra Raffaello)

Ho conosciuto Vinod Aggarwal negli anni Settanta, quando entrambi studiavamo a Stanford. Un’epoca che, vista dal presente, sembra preistorica. Vinod già allora guardava agli scenari mondiali (suo padre era funzionario Onu) e ha fatto una brillante carriera come studioso di relazioni internazionali, in particolare della globalizzazione economica. Discutiamo di futuro e ricostruzione, sulla scia della «coronacrisi».

MAURIZIO FERRERA — La pandemia Covid-­19 sta causando gravi turbolenze economiche. Restrizioni e lockdown lasciano una scia di pesanti perdite in termini di occupazione e produzione. Le reti globali che alimentano innovazione e conoscenza iniziano a incepparsi. Stiamo entrando in una fase di globalizzazione frammentata?

VINOD AGGARWAL — È probabile. Negli ultimi due decenni le catene di fornitura sono diventate sempre più complesse, ormai materie prime e prodotti a vari stadi di lavorazione si spostano da un punto all’altro sul piano globale. In tempi «normali» ciò garantisce efficienza, in tempi di crisi diventa rischioso. Anche se si riuscisse a riportare il Covid­-19 sotto controllo e la recessione avesse una curva a V, la presidenza Trump (come altri governi) aveva iniziato, già prima della pandemia, a prendere le distanze dalla Cina, a spostare le catene di fornitura altrove e incoraggiare il rimpatrio delle produzioni. La preoccupazione principale riguarda la sicurezza nazionale e i rischi delle cosiddette tecnologie a uso duplice (civipunto all’altro sul piano globale. In tempi «normali» ciò garantisce efficienza, in tempi di crisi diventa rischioso. Anche se si riuscisse a riportare il Covid­-19 sotto controllo e la recessione avesse una curva a V, la presidenza Trump (come altri governi) aveva iniziato, già prima della pandemia, a prendere le distanze dalla Cina, a spostare le catene di fornitura altrove e incoraggiare il rimpatrio delle produzioni. La preoccupazione principale riguarda la sicurezza nazionale e i rischi delle cosiddette tecnologie a uso duplice (civile e militare). Ma c’è anche il timore che Pechino cerchi di accrescere la competitività delle proprie imprese a scapito dei concorrenti stranieri. L’attuale crisi accelererà queste dinamiche e coinvolgerà anche altri Paesi: l’obiettivo di garantire il flusso di forniture bilancerà quello di ridurre i costi. Vietnam e Thailandia hanno già raggiunto i limiti della loro capacità di alimentare le imprese straniere, il vincitore economico della crisi potrebbe essere l’India, se riesce a essere all’altezza della situazione.

MAURIZIO FERRERA — In un’intervista su «le Monde», il filosofo Jürgen Habermas ha preconizzato che la salvaguardia di alcuni beni primari, come la salute e l’integrità fisica, ridiventerà la più importante priorità nelle società europee e che l’esigenza di prestazioni garantite dallo Stato acquisterà precedenza rispetto al principio del «calcolo utilitaristico» sul quale ha poggiato l’egemonia neoliberista. Varrà anche per gli Stati Uniti?

VINOD AGGARWAL — Sì, ma in misura inferiore rispetto all’Europa. I repubblicani e Trump sono a favore dello «Stato minimo» ma la crisi Covid­-19 li ha obbligati ad accrescere l’intervento pubblico per la salute e l’occupazione, classiche priorità dei democratici. Anche se per tradizione gli Stati Uniti preferiscono l’assicurazione di disoccupazione piuttosto che l’assistenza alle imprese, la crisi ha generato un sostegno bipartisan per finanziare le aziende, grandi e piccole. Ora i fondi stanno finendo e nel Congresso si sta giocando una partita dura sul loro rinnovo. Senza dubbio si troverà un compromesso. Nessuno dei due partiti può permettersi di arrivare alle elezioni di novembre con un elettorato pieno di disoccupati. Teniamo però presente, per tornare alla domanda, che le proposte di Bernie Sanders per un massiccio incremento delle spese sanitarie ed educative non hanno riscosso molto sostegno.

MAURIZIO FERRERA — Se Trump vincerà le elezioni dovremo aspettarci un rafforzamento del protezionismo e dell’isolazionismo? Gli Stati Uniti hanno mostrato una notevole riluttanza a favorire, per non parlare di guidare, una risposta congiunta alla pandemia. Ci sono volute la Francia per convocare un vertice del G7 e l’Arabia Saudita per convocare il G20. Anche l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) è in crisi…

VINOD AGGARWAL—Se Trump vince di nuovo, continueranno le spinte verso l’autosufficienza e le pressioni sulle imprese affinché riportino le catene di fornitura negli Usa. Tuttavia non parlerei di semplice protezionismo, ma di «unilateralismo aggressivo». L’amministrazione cercherà, come ha già fatto, di concludere accordi commerciali bilaterali ritenuti vantaggiosi. Il Wto da tempo non funziona bene come arena per i negoziati multilaterali: il round di Doha, iniziato nel 2001, è crollato a tutti gli effetti nel dicembre 2015, molto prima che Trump fosse eletto. Ciò che è grave è piuttosto l’attuale declino dell’organo di risoluzione delle controversie del Wto. L’amministrazione Trump non è stata capace di nominare i giudici di appello in quest’organo. Senza meccanismi di soluzione delle controversie, il commercio mondiale ritornerà sempre più a essere una questione di potere fra Stati.

MAURIZIO FERRERA — Il politologo Ian Bremmer ha evocato pochi anni fa uno scenario cupo, secondo cui la governarne della globalizzazione si sarebbe gradualmente sfilacciata fino a ridursi a un mondo da lui definito «G zero», ossia caratterizzato dalla sparizione di tutti i gruppi di coordinamento internazionale.

VINOD AGGARWAL — Le organizzazioni internazionali sono in grado di conseguire solo quanto gli Stati membri permettono loro. In parole povere, è raro che le organizzazioni internazionali — compresa l’Organizzazione mondiale della sanità, che potrebbe giocare un ruolo rilevante in questa crisi—abbiano la forza di dettare l’agenda agli Stati. Esse offrono linee guida che i governi sono liberi di adottare o no. Dati i vantaggi del coordinamento su questioni che di rado fanno notizia, è molto più probabile che questo ruolo si atrofizzi nel tempo ma sopravviva, piuttosto che scomparire del tutto.

MAURIZIO FERRERA — Parliamo della Cina. Il Partito comunista di Pechino ha salutato il contenimento del virus co­ me un grande successo. Alcuni commentatori occidentali prevedono che la Cina potrebbe essere il vincitore finale della catastrofe Covid­-19.

VINOD AGGARWAL — Dubito che la Cina emergerà come vincitore, nonostante l’incompetenza del presidente Trump nel gestire la crisi. Il trend era già iniziato prima della pandemia ma ora molti Paesi stanno prendendo provvedimenti per impedire ai cinesi di impadronirsi delle aziende nazionali indebolite dalla crisi Covid­-19. Sebbene gli aiuti sanitari arrivati dalla Cina siano stati accolti con favore da molti Paesi, i ringraziamenti dei loro leader sono strumentali, pochi dimenticheranno che il virus è nato in Cina. Pechino non è riuscita a imparare l’arte dell’«influenza politica». Il console generale cinese a Chicago ha recentemente scritto una lettera a Robert Roth, senatore democratico del Parlamento del Wisconsin, chiedendogli di sostenere una risoluzione di congratulazioni alla Cina per la sua capacità di risposta al Covid-­19. Roth è rimasto sbalordito da questo esplicito tentativo di influenzare la politica statunitense e sta predisponendo una risoluzione di condanna per il modo in cui la Cina ha coperto il contagio da coronavirus a Wuhan. Quindi, mentre Trump sta cercando di incolpare l’Oms e la Cina per mascherare confusione e ritardi della risposta di Washington, gli inetti tentativi cinesi di influenzare la politica degli Stati Uniti si ritorceranno contro Pechino, provocando una convergenza critica bipartisan. Più in generale, anche in Africa si sta manifestando un contraccolpo anticinese, lì dove Pechino sembrava essere diventata l’attore economico dominante. C’è anche un sentimento anti­africano in Cina che ha esacerbato l’idea secondo cui Pechino non è molto diversa dalle precedenti potenze coloniali.

MAURIZIO FERRERA — A Bruxelles pochi credono ormai in un rilancio della governance globale. La stessa Ue sta scivolando verso un orientamento introspettivo, più interessato a mettere in atto misure di controllo reciproco fra Paesi piuttosto che a promuovere i loro interessi comuni sulla scena mondiale. Alcuni speravano che, dopo la Brexit, il tandem franco­tedesco avrebbe potuto guidare l’Ue fuori dall’attuale palude. Prendendo atto del disimpegno americano e unendo le forze con Paesi come il Giappone e il Canada (forse una Gran Bretagna pentita), in modo da gettare un salvagente alle strutture di governance globale esistenti. Questo scenario è troppo ottimista? Quale potrebbe essere l’alternativa, non ultimo per proteggerci dalle minacce della possibile progenie di Covid­19?

VINOD AGGARWAL — In linea di massima, se l’Ue e le medie potenze che ne fanno parte fornissero un maggiore sostegno all’ordine economico globale liberale di cui hanno fortemente beneficiato, sarebbe un segnale apprezzabile. Tuttavia, su questo punto non sarei molto ottimista. Gli Stati più piccoli tendono a comportarsi in modo egoistico. In effetti la domanda su «chi paga», se Washington riducesse drasticamente il proprio finanziamento alle istituzioni internazionali, rimane senza risposta. Gli Stati europei, così come il Canada e il Giappone, dovrebbero convincersi che il denaro speso per le organizzazioni internazionali porta più vantaggi di quello speso per le priorità nazionali: sanità, istruzione e welfare. I leader americani che sostengono le istituzioni per la governance globale devono fare oggi i conti con un elettorato che ormai pensa che il proprio sacrificio in termini di prestazioni domestiche — un sacrificio per finanziare le strutture di difesa esterna — non valga più la pena, nonostante la minaccia rappresentata dalle sfide globali sia reale (come mostra la pandemia) e benché il modo più efficace di affrontare tali minacce sia tramite istituzioni globali.

MAURIZIO FERRERA — Dopo averci gettato in una improvvisa e angosciosa incertezza, la «coronacrisi» ci sta ora spingendo a riflettere sullo stato (imperfetto) del mondo che ci circonda. Ci rendiamo finalmente conto di avere raggiunto una interdipendenza profonda, non solo sul piano economico, ma ambientale e persino biologico. Un fatto pieno di potenzialità ma anche di temibili rischi. Non disponiamo però di strumenti di governance che ci consentano di gestire adeguatamente l’interdipendenza. Se non vogliamo (né presumibilmente possiamo) tornare ai compartimenti stagni degli anni Settanta, dobbiamo rafforzare le istituzioni globali. E noi europei non possiamo più sottrarci al compito di pagare la nostra parte del conto.

 

Questo articolo è stato anche pubblicato su LaLettura del 26 Aprile 2020

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I Sacrifici da Non Sprecare

Maurizio Ferrera

Il coronavirus ha cambiato la politica. L’emergenza sanitaria domina l’agenda, le decisioni più importanti sono prese dal Presidente del Consiglio, dopo aver consultato i governatori delle regioni più colpite e gli esperti in malattie infettive. In questo momento i leader dell’opposizione non hanno incentivi a sollevare polemiche e men che meno conflitti: la gente non capirebbe.

Il cosiddetto distanziamento sociale ostacola i contatti, la condivisione di esperienze, qualsiasi forma di aggregazione. Dopo aver riempito fino a gennaio le piazze d’Italia e le pagine dei giornali, le Sardine sono scomparse. Il “popolo” si è rintanato in casa, si preoccupa principalmente della propria salute e dai politici si aspetta competenza e responsabilità decisionale

Il congelamento della politica non durerà a lungo. Purtroppo, al “disastro uno” (la pandemia) seguirà un “disastro due”: la recessione economica, con i suoi profondi risvolti sociali. Ci siamo già passati una decina di anni fa, quando scoppiò la crisi finanziaria. Anzi, a differenza di altri Paesi europei, da quella crisi non siamo ancora usciti del tutto. Questa volta c’è però un’aggravante: il coronavirus si sta diffondendo a macchia di leopardo e produce effetti molto differenziati fra territori, settori, categorie occupazionali. E al loro interno si nascondono situazioni difformi e casuali tra famiglia e famiglia, impresa e impresa, lavoratore e lavoratore.

Il governo ha iniziato ad affiancare le misure sanitarie con provvedimenti di sostegno economico. Sarà proprio questo fronte a provocare il disgelo della politica e delle sue divisioni. Evitare il contagio, garantire le cure, sconfiggere il virus sono interessi comuni, uniscono invece di dividere. Le cose cambiano drasticamente quando si tratta di definire chi sono i”perdenti” della crisi economica e come compensarli. Gli strumenti a disposizione (welfare, aiuti alle imprese) sono inadeguati. Emergerà dunque un divario crescente fra domanda di protezione e capacità di risposta. Le parti sociali, le associazioni di categoria, i partiti faranno fatica ad aggregare, mediare, coordinare. E non si può escludere che si aprano spazi di protesta sociale e mobilitazione politica in cerca di facili capri espiatori.

Nella Ue il conflitto distributivo è già iniziato. Dopo i tentennamenti iniziali, il “disastro uno” ha fatto emergere un indiscutibile interesse comune fra tutti iPaesi membri. La disponibilità a finanziare iniziative anche ambiziose in campo medico ­sanitario ora c’è, anche da parte dei nordici. A dividere è la gestione del “disastro due”, la nuova crisi economica. Come dieci anni fa, iPaesi del Nord (i loro governi più che i loro cittadini) hanno di nuovo paura che l’eventuale emissione di titoli di debito europei (i coronabond) possano indurreiPaesi del Sud a barare, ossia a spendere le risorse comuni ­e soprattutto tedesche – ­in modo irresponsabile. Timori legati a esperienze passate, ma anche a molti pregiudizi. Sulle prime siamo noi a dover rassicurare e promettere. Sui secondi, sono i nordici che devono farsi un bell’esame di coscienza.

Dobbiamo rassegnarci al ritorno, persino alla ri­acutizzazione di conflitti basati su interessi materiali, particolarismi settoriali o egoismi nazionali? È uno scenario plausibile, ma non l’unico. Emergenze e disastri possono anche condurre a scatti di solidarietà collettiva durevole nel tempo, a salti di qualità nel modo in cui le comunità politiche si tengono insieme e organizzano la collaborazione sociale. Dopo la grande depressione degli anni Trenta, Roosevelt lanciò il New Deal. Dalle ceneri della Seconda Guerra mondiale emerse il moderno welfarestate e fu in quel contesto che prese forma anche il progetto europeo.

Nella sua drammaticità, il “disastro uno” ha mobilitato in Italia un capitale di solidarietà e civismo che non sapevamo più di avere. E anche una capacità di guida e decisione politica nettamente superiore alla nostra media storica. Quando è iniziata l’epidemia, su internet e i social media vi è stato un flusso straordinario di manifestazioni di solidarietà nei nostri confronti dagli altri cittadini europei, moltissimi del Nord.

Senza indulgere alla retorica “buonista”, si può ipotizzare che il coronavirus possa lasciare uno strascico di coesione sociale che consenta di gestire il”disastro due” in modo costruttivo. Ad esempio elaborando una sorta di piano Beveridge (il progetto che rivoluzionò le assicurazioni sociali britanniche nel dopoguerra) per razionalizzare e rafforzare il welfare italiano. E adottando finalmente schemi di condivisione dei rischi a livello europeo, come premessa per un ambizioso piano Marshall di rilancio dell’economia.

Nel 2008, all’inizio del crollo finanziario, il capo di gabinetto di Barack Obama, Rahm Emanuel, pronunciò una frase diventata famosa: “Non lasciare mai che una crisi diventi un’occasione sprecata”. È un monito che oggi riguarda tutti da vicino. E che va rivolto soprattutto alle élite politiche e sociali, in Italia come nell’Unione europea.

 

Questo articolo è stato anche pubblicato su Il Corriere della Sera del 01 Aprile 2020

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