Archivi del mese: Maggio 2023

Quantità e forza dei poteri di veto

di Maurizio Ferrera

Rendere più sicura e sostenibile la vita sulla terra  richiede  grandi sforzi  in  opere pubbliche e investimenti:  proprio quelle  attività  che  il nostro stato  fatica  a svolgere. In passato,  si è  sempre puntato il dito contro la mancanza di risorse, dati i noti vincoli di bilancio.  L’ingente quantità di fondi  messi a disposizione dalla UE  hanno  oggi risolto questo problema.   Parlando al recente Forum “Verso Sud”, Raffaele Fitto ha  dichiarato che per il periodo 2023-2027 (quattro anni) la dote finanziaria per il Mezzogiorno è pari a 350 miliardi fra PNRR, fondi  strutturali e di coesione  e fondi nazionali.  Non sono tutti per  la sostenibilità ambientale,  ma  certo  l’alibi  delle risorse  non tiene più.  
Ha perso mordente anche un altro alibi:  lo scetticismo  e persino le resistenze dell’opinione pubblica. Nei paesi europei sono  quasi scomparsi i negazionisti (in Italia sono il 2%)  e la maggioranza  dei cittadini  (55%) si è convinta che  il  deterioramento dell’ eco-sistema planetario  vada affrontato  con urgenza, pensando al  proprio futuro (7 su 10) e in particolare a quello delle nuove generazioni (9 su 10).    Tradizionalmente piuttosto rari e distanziati nel tempo,   gli eventi estremi  stanno diventando sempre più frequenti:  in Italia nel 2022 sono aumentati del 55%  rispetto all’anno prima (310 in numero assoluto).  Più del 70%  degli italiani  ha avuto una esperienza diretta di qualche evento estremo.  Gli abitanti delle polazione residente in aree esposte al rischio  di alluvioni (65% in Emilia Romagna) , frane,  incendi boschivi è aumentata rispetto a dieci anni fa.  
Nella  loro drammaticità, questi dati   segnalano  che  la popolazione  è   pronta  ad appoggiare politiche ambiziose e incisive  per contrastare i  rischi ambientali.
Il nodo  che resta da  sciogliere  è la capacità  di attuazione.  Al di là delle polemiche strumentali,  la risposta  pubblica alle emergenze  è  in media efficace,  riesce a mobilitare  le risorse  e le competenze  necessarie:  la protezione civile italiana ha un’ottima reputazione.   Siccome  un evento estremo   causa danni immediati, l’ossessione per le procedure  cede il passo alle esigenze  strumentali,  in chi governa si attiva il vincolo (ma anche l’interesse) a rispondere ai bisogni  contingenti  dei cittadini.  Le cose cambiano quando si passa dal breve al medio e lungo periodo e si  deve  definire e realizzare un’agenda  di ampio respiro, imperniata sulla prevenzione.   
L’ultimo Rapporto Istat  sull’ Agenda 2030  sottolinea i  progressi del nostro paese per quanto riguarda  le emissioni  inquinanti,  ma mette in luce molti  ritardi   sul fronte dell’obiettivo  15 per lo sviluppo sostenibile,  che riguarda  la  protezione della  biodiversità,  la gestione sostenibile delle foreste,  la frammentazione  del territorio naturale e agricolo, il consumo del suolo.  Su quest’ultimo versante   il  Rapporto segnala addirittura un peggioramento.  Lombardia, Veneto e, appunto, Emilia Romagna sono fra le regioni  più cementificate, ove il territorio  ha perso buona parte delle proprie  difese naturali .   La popolazione residente in aree esposte al rischio  di alluvioni (65% in Emilia Romagna) , frane,  incendi boschivi è aumentata rispetto a dieci anni fa.  
Ancora  qualche giorno fa, il  Ministro per l’Ambiente  Pichetto Fratin ha  chiesto  “tempi certi per le decisioni e per le opere”.  Viene da dire:  perché  non  lo si fa?  chi mai  non sarebbe d’accordo?   E invece è proprio questo il problema:  la quantità e la forza dei poteri di veto.  I processi di attuazione  degli  investimenti  pubblici   poggiano su un coacervo di  regole  che prevedono la partecipazione di  una  spropositata pluralità di attori.  Molti  di questi possono  chiudere il loro “passaggio a livello” e creare un ingorgo non perché  può passare un treno (qualche danno non previsto dalle norme)  ma  al solo scopo di  difendere i propri interessi.   
La lotta al cambiamento climatico  e più in generale  l’agenda per lo sviluppo sostenibile  richiedono  all’amministrazione pubblica capacità  straordinarie  di  progettazione,  attuazione, monitoraggio e valutazione.  Per lo stato italiano la sfida è gigantesca,  visto che  non siamo ancora  riusciti a  dotarci delle capacità ordinarie tipiche dell’amministrazione novecentesca.  Il governo Draghi aveva promesso  semplificazioni “brutali” e un massiccio reclutamento di giovani competenze.   Dispiace dire che i progressi sono stati deludenti.   Nella cultura anglosassone,   il dibattito pubblico avrebbe  da tempo a disposizione almeno un “libro bianco”  in cui si identificano con precisione i colli di bottiglia e si propongono le soluzioni.  Da noi i poteri di veto riescono a impedire anche questo elementare primo passo.   Ciò che a loro importa  non è la tutela  dell’ambiente, ma   quella  dei propri orticelli.

Questo articolo è stato anche pubblicato su Il Corriere della Sera del 20 Maggio 2023

Lascia un commento

Archiviato in Articoli, Corriere della Sera

Aperture e ostilità: quei giochi europei sull’Italia

di Maurizio Ferrera

Lo scorso ottobre  l’arrivo di Giorgia   Meloni   a Palazzo Chigi   fu visto  come un  piccolo terremoto  in Europa.  Gli elettori  di uno  dei paesi fondatori della UE  avevano scelto  un  leader  dichiaratamente sovranista.   Una novità che  rischiava di compromettere i delicati equilibri fra  paesi e  gruppi politici e  forse lo stesso processo di integrazione. 
In realtà,  a Bruxelles  il cambio di governo a Roma  ha generato  per ora conseguenze limitate.   Si  sono tuttavia polarizzate  le posizioni  nei confronti dell’Italia all’interno  della  cosiddetta “sfera intermedia” della politica europea,  quella  in cui i leader  dei vari paesi  si confrontano tra loro   negli incontri bilaterali  oppure si parlano  a distanza attraverso  i media.   E’ all’interno  di questa sfera che  si  forgiano le alleanze  in vista  delle decisioni  UE.  Le  dichiarazioni pubbliche  servono  inoltre  a mandare messaggi  ai propri   elettori.
I primi  leader  a dare il benvenuto a Giorgia Meloni sono stati  ovviamente Orban e Morawiecki,  i quali hanno subito  rimarcato  la comune visione sovranista dell’ Europa.  Quando Meloni è andata in visita a Varsavia,  il premier Morawiecki  l’ha portata  al  “Tolkien  café”,   aperto per  celebrare  un  testo cult  della destra europea,   “Il Signore degli Anelli”. Alla fine  della chiacchierata,  Georgia e Mateusz  hanno  dichiarato:  “insieme sconfiggeremo  Mordor”.   Bruxelles e  la  burocrazia europea venivano  paragonati  al regno oscuro del tiranno Sauron.
I simboli  di Tolkien fanno parte dell’ immaginario  sovranista , richiamarli è un modo per  attirare l’attenzione degli elettori più giovani.   Dietro alla simpatia  polacca e ungherese  per Meloni   vi sono  anche  interessi  molto concreti.  Budapest e Varsavia  sperano  nell’appoggio  di un  grande paese  come l’Italia per  costruire minoranze di blocco nel Consiglio  su temi  delicati come lo stato di diritto  o  l’ambiente.  La  sorprendente crescita dei  Democratici Svedesi,  altro partito  di destra radicale,  potrebbe  facilitare  aggregazioni  di questo tipo.  Meloni ha  tuttavia  deluso finora tali aspettative.
I leader europeisti si  rapportano  con il governo italiano in modo speculare ai sovranisti.   Da un lato,  condannano  pubblicamente la  visione  dell’Europa  come insieme di patrie nazionali e l’ostilità contro i migranti da parte di Meloni. Dall’altro lato,  non possono permettersi di tirare troppo la corda: anche per loro è importante  che l’Italia  resti allineata con la tradizionale agenda  europeista.   
Delegittimando Meloni,  gli europeisti sperano di togliere spazio alla destra radicale interna come Vox in Spagna e  Le Pen e Zenmour in Francia.  Alcuni esponenti del governo spagnolo (ad esempio la influente Ministra del Lavoro,   che proviene da Podemos) si sono  lasciati andare a  dichiarazioni  molto critiche.  I più aggressivi sono stati  i leader di governo francesi:   la premier Borne  pronunciò  già in ottobre la frase infelice  “vigileremo sul rispetto dei diritti”, mentre  il ministro Darmarin  ha recentemente e accusato   Meloni di essere un’incapace   sulla questione dei migranti, aprendo una crisi diplomatica non ancora completamente sanata.  
Nelle conversazioni private e gli incontri bilaterali, il quadro cambia.  Nella sua visita a Roma, Sanchez  ha cercato di trovare un terreno comune sui dossier europei più importanti.  E lo stesso Macron ha evitato  che le tensioni  fra  Roma e Parigi degenerassero  in  un conflitto politico  dannoso  anche per la Francia. 
Nella sfera intermedia  si accavallano  molti giochi, con obiettivi diversi.   Ambiguità e doppi sensi  sono difficili da reggere nel tempo.  Prima o poi arriva sempre un redde rationem:  un momento e una questione su  cui  è impossibile non prendere una posizione netta.   Ciò vale per  i  leader  europeisti ma anche per  il governo italiano.  Fino a quando sarà possibile  barcamenarsi fra due forni: quello sovranista per quanto riguarda la visione, quello europeista  quando si tratta invece di  votare su questioni  cruciali?   E’ chiaro, ad esempio, che non si può  criticare l’invadenza di  “Mordor”- Bruxelles e al tempo stesso  chiedere  più debito comune. 
E’ probabile che la resa dei conti arrivi con  le prossime elezioni europee,  che si terranno  nella tarda primavera 2024.   Dopo il  voto potrebbero  crearsi le condizioni per la formazione di una maggioranza inedita  nel Parlamento europeo,  composta dai Popolari e dai Conservatori e Riformisti europei,  il gruppo  oggi presieduto  proprio da Giorgia Meloni.  Questo scenario potrebbe  essere il risultato  dell’erosione  dell’attuale maggioranza (socialisti e popolari)  oppure  di un esplicito accordo  pre-elettorale fra  popolari, conservatori e forse liberali.  La scelta non dipende solo dal gruppo presieduto da Meloni,  ci sono divisioni anche all’interno  dei popolari e dei  liberali.  Molto dipenderà anche  dalla capacità dei socialisti e democratici di risalire la china,  elaborando una visione progressista dell’Europa, unitaria e convincente.   
Dal punto di vista sistemico, per l’Unione europea nel suo complesso e per l’Italia in particolare lo scenario più temibile  sarebbe quello di  un nuovo cordone sanitario contro la destra, non limitato a quella di  Le Pen ma  allargato anche ai conservatori e riformisti.  Per questo  il governo Meloni dovrà   alla fine scegliere (semplificando)   non solo fra   Macron  e Le Pen-Zenmour, ma anche fra  il tandem  Parigi-Berlino  e quello Budapest-Varsavia.

Questo articolo è stato anche pubblicato su Il Corriere della Sera del 14 Maggio 2023

Lascia un commento

Archiviato in Articoli, Corriere della Sera

L’utopia di oggi è riconciliare civiltà e natura

di Maurizio Ferrera

La teoria critica, nelle sue varie versioni, analizza le contraddizioni del presente, ma non fornisce indicazioni per il futuro. Un saggio di Roberto Mordacci indica l’orizzonte di una nuova prospettiva per scongiurare il pericolo dell’estinzione collettiva
Nella filosofia moderna il concetto di «critica» irrompe grazie a Immanuel Kant, che le attribuisce un compito fondativo: individuare le condizioni che rendono possibile l’uso della ragione in ambito sia teoretico che pratico. Con Karl Marx, l’analisi critica si storicizza: il suo oggetto diventano le dinamiche concrete della società al fine di metterne in luce le contraddizioni e individuare le trasformazioni capaci di superarle. Negli anni Trenta del secolo scorso, gli studiosi della Scuola di Francoforte (come Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse, Walter Benjamin) integrano l’approccio marxiano con le acquisizioni delle scienze sociali empiriche. Alla filosofia critica spetta la funzione di definire innanzitutto i problemi di ricerca e di organizzarne poi i risultati entro un quadro interpretativo il cui fine ultimo è disvelare gli ostacoli alla emancipazione umana. Di particolare rilevanza, per i francofortesi, è la critica dell’ideologia, ossia lo smascheramento della falsità delle strutture culturali e sociali che giustificano e riproducono l’oppressione.
Già all’interno della Scuola di Francoforte e poi nei successivi sviluppi, la teoria critica ha assunto sfumature e orientamenti diversi. Il recente libro Critica e utopia (Castelvecchi) di Roberto Mordacci, autorevole studioso di filosofia della storia, ne fornisce una efficace sistematizzazione, distinguendo fra quattro principali filoni. Il primo è quello della critica trascendentale che, alla stregua di Kant, mira a individuare le strutture normative che orientano i tipi di azione. Un esempio è la teoria di Jürgen Habermas sull’agire comunicativo. Quest’ultimo si esplica tramite un dialogo intersoggettivo volto a raggiungere intese su principi e immagini del mondo. Se non rispetta alcune condizioni trascendentali (sincerità, veridicità e così via) la comunicazione fallisce e genera contraddizioni pratiche che impediscono l’intesa.
La seconda forma di critica è quella dialettica, di derivazione hegelo-marxiana. Qui l’attenzione si concentra sulle manifestazioni concrete della prassi storica, come l’Illuminismo e il predominio della razionalità strumentale (Adorno e Horkheimer) o la società unidimensionale (Marcuse). Queste manifestazioni vengono criticate in quanto deformazioni dei propri stessi presupposti normativi. Il capitalismo vuole produrre ricchezza, ma finisce per causare crisi ricorrenti, sfruttamento e alienazione. E questi effetti perversi vengono occultati attraverso giustificazioni ideologiche che creano false motivazioni.
La terza forma è quella genealogica, più vicina a Friedrich Nietzsche. In questo caso lo scopo della critica è decostruire le contraddizioni presenti rintracciandone le radici storiche profonde. Adorno e Horkheimer collegano la deriva totalitaria loro contemporanea a quella «separazione fra soggetto e oggetto» caratteristica del pensiero occidentale fin dal mito di Ulisse (la razionalità strumentale) che si lega le mani per resistere alle sirene (le forze della natura). Gli studi di «archeologia del sapere» di Michel Foucault (ad esempio la sua Storia della follia ) sono un altro esempio di critica genealogica.
Infine c’è la critica messianica, esemplificata soprattutto da Benjamin. Ad essere sotto processo è qui l’idea stessa di storia come progresso, capace di superare per gradi oppressione e alienazione (come nel pensiero socialdemocratico). Le contraddizioni della realtà sono invece insanabili, l’unica redenzione può avvenire per mezzo di un evento rivoluzionario radicale e definitivo.
Nella seconda parte del suo interessante volume, Mordacci collega teoria critica e pensiero utopico (a cui aveva già dedicato il libro Ritorno a Utopia , Laterza, 2020). Pur sorretta dall’impegno normativo nei confronti dell’emancipazione, la teoria critica si concentra sulla denuncia delle contraddizioni, ma non delinea scenari alternativi. Per Mordacci bisogna superare questo limite, impegnandosi in un «completamento costruttivo che osi immaginare l’alternativa nelle sue forme più concrete».
L’autore propone dunque una quinta forma di critica, capace di immaginare nuovi mondi possibili in grado di motivare l’azione politica a favore del cambiamento. La critica utopica non si limita a rilevare le contraddizioni del presente, ma suggerisce, anche per frammenti, percorsi concreti di rovesciamento che colpiscano i nodi nevralgici delle strutture di oppressione e sfruttamento. Quale metodo seguire per esercitare l’immaginazione utopica?
Nel capitolo più originale del libro, Mordacci sostiene che tale esercizio deve poggiare su quella funzione – insieme emotiva e cognitiva – che la tradizione filosofica ha chiamato sensus communis . Senso di giustizia, tensione verso l’eguaglianza, desiderio di libertà, impulso alla solidarietà, aspirazione alla felicità: queste le capacità di base da impiegare per l’immaginazione del futuro.
L’autore non si sottrae al compito di individuare l’attuale priorità per la critica utopica: l’emergenza ambientale. Giustamente, Mordacci sostiene che il cambiamento climatico è una sfida ineludibile, il risultato di un grumo di contraddizioni che mette a repentaglio la stessa sopravvivenza del pianeta. Ci troviamo di fronte a una vera e propria necessità utopica: ripensare nel profondo il rapporto fra uomo e natura, liberando le potenzialità di giustizia sociale ed emancipazione che si aprono in questo processo.
L’appello di Mordacci è più che giustificato. Denunciare le contraddizioni e sottolineare l’enormità del rischio che incombe su di noi non fornisce oggi incentivi sufficienti affinché la sfera politica si attivi per scongiurare l’estinzione collettiva. E anche se accadesse, il semplice istinto di conservazione potrebbe dar luogo a risposte regressive e non emancipative. La motivazione che deve spingerci a cambiare modello di sviluppo non deve essere solo la paura, ma anche e soprattutto la speranza (non a caso Mordacci richiama Ernst Bloch e il suo principio-speranza). Dobbiamo perciò attivare quella coscienza anticipante che forgia il «non-ancora» come meta di libertà e giustizia e, oggi, di riconciliazione con la natura.
Alle capacità del senso comune elencate da Mordacci dovremmo forse aggiungere quella che i pensatori ambientalisti chiamano sensibilità biofilica: il senso di appartenenza e l’attrazione spontanea che noi umani proviamo per la natura e tutti gli esseri viventi. Per Adorno e Horkheimer il razionalismo occidentale nacque con l’astuzia di Ulisse di fronte alle sirene. Il vero errore non fu però resistere al canto, ma lasciare dietro di sé il verde prato fiorito che copriva la loro isola. Oggi abbiamo bisogno di utopie realiste che ci aiutino a sanare quella separazione. Con un nuovo «folle volo», nel nome di una sostenibilità equa e inclusiva.

Questo articolo è stato anche pubblicato su La Lettura – Il Corriere della Sera del 7 Maggio 2023

Lascia un commento

Archiviato in Articoli, Corriere della Sera, La Lettura