Archivi del mese: ottobre 2015

Merkel e Hollande, l’occasione perduta dell’Europa

Ieri a Strasburgo si sono incontrate, e in parte scontrate, due diverse Europe: quella delle istituzioni sovranazionali (il padrone di casa era il Parlamento) e quella degli Stati membri. Hollande e Merkel hanno parlato di questioni che riguardano tutti, avendo però in mente le priorità e gli interessi dei loro due Paesi. Il presidente francese si è concentrato sul tema della sicurezza e sulla minaccia dell’Isis, rivendicando il ruolo chiave della Francia e auspicando maggiore sostegno e aiuti da parte degli altri governi. La Cancelliera si è soffermata in particolare sul tema dei rifugiati, sottolineando le iniziative tedesche e la necessità di maggiore condivisione degli oneri fra Paesi. Merkel non ha quasi mai nominato l’Unione (anche se ha riconosciuto che occorre rimediare agli «errori concettuali» dell’euro). Hollande ha fatto qualche cenno in più, arrivando ad evocare la «federazione di Stati» come obiettivo strategico. Ma ha subito aggiunto che non si dovrà mettere in discussione la sovranità nazionale.

Chi si aspettava dal famoso motore franco-tedesco una proposta forte sull’Unione politica e la riforma dell’euro è rimasto deluso. Nei due discorsi è più volte affiorato il desiderio di consolidare la formula «2 più 26»: l’iniziativa e l’intesa fra Berlino e Parigi come precondizione per le decisioni comuni. E dunque una preferenza per il cosiddetto metodo intergovernativo, incentrato sul Consiglio, che ha preso sempre più piede durante gli ultimi anni. I l dibattito con i membri del Parlamento è stato molto acceso e ha fatto emergere due pericolosi conflitti, i quali rischiano non solo di provocare lo stallo delle riforme, ma di minare le basi stesse della costruzione europea. Il primo contrappone la sfera interna della Ue (le istituzioni e le politiche «comuni») e quella esterna, in cui si confrontano gli interessi dei governi nazionali e le loro perduranti «ragioni di Stato». Il secondo conflitto riguarda il ruolo del direttorio franco-tedesco, da molti peraltro considerato come un paravento per il predominio della Germania.

Non è certo la prima volta che il processo d’integrazione s’inceppa per poi ripartire. Oggi siamo però di fronte ad una grave crisi di legittimità. Quote molto significative di elettori e importanti segmenti di élite si interrogano sempre più seriamente sulla validità delle decisioni di Bruxelles e sulla disparità di influenza fra la Germania e gli altri. I conflitti sono il sale della politica, ciò che la induce a «prevenire l’ineluttabile, riuscire nell’improbabile, realizzare le speranze dei cittadini» (secondo una bella frase di Mitterrand). Ma se la legittimità precipita sotto soglie di sicurezza, i conflitti diventano molto difficili da ricomporre, la politica distrugge invece di costruire.

Bombardati dalle accuse, i due leader hanno reagito in modo diverso. Hollande ha fatto il leone ferito, ribadendo che il ruolo guida del proprio Paese in Europa è un’eredità della storia del Novecento. Nigel Farage ha esagerato dicendo che la Francia è ormai diventata una «mezza calzetta». Ma è innegabile che Parigi da sola non sia più in grado di controbilanciare Berlino (un fatto che apre oggettivi spazi di manovra all’Italia). Angela Merkel ha ascoltato il dibattito con un volto impassibile e alla fine ha dato solo qualche risposta imbarazzata. Forse si è accorta che la Germania sta diventando il problema politico per l’Europa. Speriamo abbia capito che spetta proprio a lei trovare la soluzione.

Questo articolo è comparso anche su Il Corriere della Sera dell’8 ottobre 2015

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Il pensatoio che manca per costruire la terza via all’italiana

Renzi come Clinton e Blair? Il paragone è stato proposto dal politologo americano Fareed Zakaria, durante la recente visita del nostro Premier a New York. Non si è trattato solo di una captatio benevolentiae per iniziare la conversazione, alla quale peraltro partecipava anche Bill Clinton. La battuta di Zakaria esprimeva una diagnosi e un suggerimento su cui vale la pena di riflettere. La sinistra moderata europea è oggi allo sbando: qualcuno (forse Renzi?) dovrebbe raccogliere, aggiornandola, l’eredità della Terza Via, il suo patrimonio di idee e valori e, in particolare, i suoi progetti di modernizzazione del modello economico e sociale europeo.

Oggi in Europa ci sono sia lo spazio sia la domanda per un nuovo riformismo di centro-sinistra, ambizioso e al tempo stesso realista. La parabola del liberismo di matrice anglo-sassone è in fase discendente. Durante la  crisi ha messo però radici una grigia cultura politica basata sul rispetto di regole e numeri (3% di deficit, 60% di debito, 2% di inflazione e così via). Sono i precetti del cosiddetto “ordo-liberalismo” alla tedesca. Utili, per carità, al fine di scoraggiare politiche fiscalmente irresponsabili. Ma muti sui contenuti, sui fini ultimi da proporre a elettori sempre più insicuri e disorientati.

La socialdemocrazia sembra aver perso la voce e forse persino la testa per pensare, soprattutto dove è al governo. Dalla Francia giungono solo lamenti senza proposte. La SPD è appiattita sulle posizioni di Angela Merkel ed è ormai incapace di guardare oltre i confini (e gli interessi) della Germania. Gli Scandinavi sono ripiegati su se stessi e rincorrono i loro concorrenti neo-populisti. Con l’elezione di Corbyn, i laburisti hanno innestato la marcia indietro verso il Novecento. Le fiamme di Syriza hanno prodotto solo rovine e lo stesso Tsipras ha dovuto trasformarsi da piromane in pompiere.

Ciò che stupisce e dispiace è che nei circoli accademico-intellettuali europei circolano invece molte buone idee. Pensiamo al cosiddetto “paradigma dell’investimento sociale”, elaborato per rispondere alla sfida oggi più pressante: rilanciare una crescita sostenibile, capace di produrre buona occupazione. Senza mettere in discussione né la logica di mercato né gli equilibri di bilancio, questa strategia vede nelle politiche sociali e nell’istruzione la leva del cambiamento. E guarda ai gruppi oggi più svantaggiati (bambini, giovani, donne, anziani espulsi dal lavoro, ma motivati a rimanere attivi) come ai soggetti su cui investire e scommettere. Un approccio convincente e sicuramente in linea con la tradizione del centro-sinistra. Anche sul versante UE si discutono proposte innovative, come quella di affiancare all’Unione economica e monetaria una vera e propria Unione sociale, capace di conciliare alti livelli di welfare nazionale con la promozione di nuove solidarietà paneuropee. Alcuni degli esponenti di questo neo-riformismo liberal si sono ritrovati a fine settembre nelle aule del Trinity College a Cambridge. Hanno in mente di pubblicare un libro, ma le loro idee dovrebbero interessare e far discutere anche i leader del centro-sinistra, non solo gli studenti.

L’Italia è ancora vista (e a ragione) come un paese pieno di problemi. Ma si sta anche diffondendo la percezione di un cambiamento. In visita a Roma per discutere di riforme strutturali, gli esperti della Commissione hanno espresso valutazioni molto positive: era un po’ che non succedeva. Anche i giornali stranieri cominciano a usare toni diversi quando parlano di noi. Se questi sviluppi si consolidano, il nostro paese potrebbe diventare un buon esempio di centro-sinistra “che funziona”.

Il Renzismo come nuova Terza Via? Fu proprio Blair ad affermare: “la Terza Via è ciò che funziona” (sottinteso: nel promuovere la crescita, proteggendo i più deboli). La definizione era in realtà un britannico understatement. Dietro al New Labour c’era una articolata cornice di pensiero, attento non solo a problemi e soluzioni, ma anche a valori e principi. E c’era una efficacissima strategia comunicativa, interna e internazionale. Tutto questo nel centro-sinistra italiano non si vede.

Rispondendo a Zakaria, il nostro Presidente del consiglio si è schernito con spiritosa modestia. Ma qualche margine per alzare il tiro in effetti c’è. Ciò richiede però un serio investimento sui contenuti. Il discorso pubblico di Renzi è, sì, imperniato sul cambiamento, la rottura con il passato, l’urgenza del fare. Ma resta povero di sostanza, di idee-guida che possano far presa anche fuori dal perimetro nazionale. Clinton e Blair poterono disporre sin dall’inizio di un robusto tessuto di “pensatoi” per l’elaborazione intellettuale. A Roma il retroterra va costruito e non si può essere troppo ambiziosi. Qualcosa però si può fare. Il riformismo europeo ha bisogno di una bella spinta per rimettersi in moto. Pur tenendo conto dei limiti oggettivi, Matteo Renzi potrebbe rimboccarsi le maniche e provarci davvero.

Questo articolo è comparso anche su Il Corriere della Sera del 5 ottobre 2015

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