di Maurizio Ferrera
Una società basata sull’economia di mercato può garantire allo stesso tempo libertà e giustizia. Questo esito non è scontato: dipende da un corretto equilibrio fra concorrenza e regolazione. E l’esperienza storica europea della prima metà del Novecento mostra quanto sia stato difficile raggiungere tale equilibrio. In estrema sintesi, questa è la conclusione generale a cui giunge Karl Polanyi, scomparso sessant’anni fa il 23 aprile 1964, alla fine del libro La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche del nostro tempo . Uscita in inglese nel 1944 e tradotta in italiano nel 1974, l’opera di Polanyi ha esercitato un’enorme influenza fra gli studiosi di storia e teoria sociale e ancora oggi ispira il lavoro di molti scienziati politici e sociologi economici.
Con il termine Grande Trasformazione, lo studioso ungherese (poi emigrato a New York, dove insegnò alla Columbia University) si riferiva al processo di cambiamento strutturale avviato nella prima metà dell’Ottocento dalla rivoluzione industriale. Tale processo fu caratterizzato da un «doppio movimento». Dapprima vi fu un progressivo scardinamento dell’economia e delle relazioni sociali preindustriali, causato dall’ascesa del mercato capitalistico, con la diffusione di nuove forme di produzione meccanizzata e di continue innovazioni tecniche: un contesto quasi interamente basato sul libero scambio, sulla domanda e offerta di «merci», compresa la forza lavoro. Poi iniziò un contro-movimento da parte della società contro gli eccessi di «mercificazione» e le loro conseguenze sociali.
Le associazioni sindacali e i partiti operai furono le forze trainanti di questa seconda fase della Grande Trasformazione. Sul piano istituzionale, le principali conquiste del contro-movimento furono i primi programmi di assicurazione sociale (introdotti nei due decenni prima della Grande guerra), i quali sottrassero il soddisfacimento dei bisogni di base dei lavoratori alla logica del mercato. Sul più ampio piano economico-sociale, l’esito del contro-movimento portò a ciò che Polanyi chiamava embedment : la ri-connessione fra i mercati e loro contesti sociali e politici, in modo da stabilizzare i primi e dinamizzare i secondi, mitigare i rischi e ampliare le opportunità. L’avvento della democrazia e del welfare prometteva così di addomesticare il capitalismo nei suoi aspetti più brutali.
Sfortunatamente, però, questo primo tentativo di riconciliazione si risolse in catastrofe: una grande guerra mondiale, poi il fascismo. Da un lato, le élite liberali (soprattutto nel mondo anglosassone) si mobilitarono per restaurare l’ordine capitalistico internazionale e la disciplina di mercato. Dall’altro lato, vi fu una spirale di radicalizzazione delle masse e in alcuni Paesi il collasso della democrazia parlamentare (Italia, Germania). Solo dopo una seconda carneficina bellica, l’incontro fra capitalismo e democrazia poté trasformarsi in un processo di mutua e sinergica collaborazione, consolidando ed espandendo il welfare state d’ispirazione «keynesiana».
Seppur scritto ottant’anni fa, il libro di Polanyi mantiene una straordinaria attualità per almeno due motivi. Innanzitutto, ci troviamo oggi nel mezzo di una seconda Grande Trasformazione. L’avvento della società post-industriale, l’apertura dei mercati, la globalizzazione, la cosiddetta quarta rivoluzione tecnologica sono i motori di un nuovo profondo cambiamento delle economie e delle società europee. La tradizionale struttura di rischi e opportunità dell’epoca fordista è andata progressivamente sgretolandosi. Territori, gruppi sociali, famiglie, persone si trovano ad affrontare situazioni non previste di bisogno e insicurezza. Il flusso di opportunità e di rischi è diventato più fluido e imprevedibile.
Come avvenne in corrispondenza della Grande Trasformazione novecentesca, il «primo movimento» della seconda – che oggi ha investito appieno le nostre società – provoca rotture e turbolenze. Le probabilità di accesso alle opportunità e di esposizione ai rischi sono distribuite in modo fortemente asimmetrico, alimentando una polarizzazione della diseguaglianza. Il cambiamento fa sì che le chance di vita delle persone perdano le àncore che le rendevano un tempo ragionevolmente stabili e prevedibili lungo il corso dell’esistenza. Il contro-movimento è già iniziato, ma per ora non è riuscito a dare un ordine alla nuova costellazione di rischi e opportunità: un ordine capace di favorire lo sviluppo economico e sociale e di salvaguardare al tempo stesso le garanzie liberaldemocratiche.
Lo Stato nazionale non è più in grado, da solo, di ricreare quest’ordine. I protagonisti delle conquiste sociali novecentesche fanno fatica ad accettare la necessità di ricalibrare il vecchio welfare. Ma la tentazione di arrestare i cambiamenti, di alzare i ponti levatoi per difendere le antiche cittadelle è destinata al fallimento. Come ben diceva, di nuovo, Polanyi, «la restaurazione del passato è impossibile, tanto quanto trasferire i nostri problemi su un altro pianeta». Solo l’Unione Europea ha una scala geoeconomica e geopolitica adeguata per promuovere nuove forme di embedment , capaci di neutralizzare gli effetti erosivi di natura sociale della Grande Trasformazione 2.0.
La seconda ragione che rende ancora attuale l’opera di Polanyi è la sua diagnosi della crisi interbellica, che minò le basi dei regimi democratici e aprì la strada alle involuzioni autoritarie, in particolare al fascismo. Stiamo correndo anche oggi un rischio simile di involuzione? Considerando gli sviluppi dell’ultimo quindicennio, vi è in effetti qualche ragione di preoccupazione. C’è chi sostiene, ad esempio, che la radicalizzazione neonazionalista e spesso xenofoba in corso in molti Paesi, da un lato, e l’intreccio fra populismo e capitalismo predatorio, dall’altro, siano i prodromi di nuove possibili spirali di instabilità.
Nel delineare i tratti del contesto che condusse al fascismo, nel suo libro Polanyi menziona l’ascesa di correnti intellettuali irrazionaliste, razziste e anticapitaliste; di leader demagogici, molto critici rispetto ai partiti e pieni di disprezzo nei confronti del «regime», ossia delle esistenti istituzioni democratiche. Furono questi fattori ad alimentare i movimenti di destra che infersero colpi mortali alla democrazia e alle garanzie costituzionali. È quasi superfluo sottolineare come alcuni di questi fattori si stiano oggi ripresentando, anche se sotto altre spoglie. A preoccupare sono soprattutto le tendenze illiberali che mettono in discussione alcuni fondamenti dello Stato di diritto: separazione dei poteri, uguaglianza davanti alla legge, limiti certi e codificati al potere esecutivo e alla sua discrezionalità. Pensiamo, per tutti, all’Ungheria di Viktor Orbán. Anche in questo caso, la soluzione va cercata a livello europeo. L’Unione ha una «costituzione» (i Trattati) e un sistema giuridico che le forniscono strumenti adeguati a contrastare queste tendenze con la stessa fermezza con cui vengono contrastati gli aiuti di Stato o la formazione di monopoli. È giunto il momento di attivare questi strumenti, per soffocare sul nascere ogni seme di neoautoritarismo.
Questo articolo è stato pubblicato anche su ‘La Lettura – Il Corriere della Sera’ del 12 Maggio 2024