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Gli articoli di Maurizio Ferrera pubblicati sul Corriere della Sera

Una nuova Grande Trasformazione?

di Maurizio Ferrera

Una società basata sull’economia di mercato può garantire allo stesso tempo libertà e giustizia. Questo esito non è scontato: dipende da un corretto equilibrio fra concorrenza e regolazione. E l’esperienza storica europea della prima metà del Novecento mostra quanto sia stato difficile raggiungere tale equilibrio. In estrema sintesi, questa è la conclusione generale a cui giunge Karl Polanyi, scomparso sessant’anni fa il 23 aprile 1964, alla fine del libro La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche del nostro tempo . Uscita in inglese nel 1944 e tradotta in italiano nel 1974, l’opera di Polanyi ha esercitato un’enorme influenza fra gli studiosi di storia e teoria sociale e ancora oggi ispira il lavoro di molti scienziati politici e sociologi economici.
Con il termine Grande Trasformazione, lo studioso ungherese (poi emigrato a New York, dove insegnò alla Columbia University) si riferiva al processo di cambiamento strutturale avviato nella prima metà dell’Ottocento dalla rivoluzione industriale. Tale processo fu caratterizzato da un «doppio movimento». Dapprima vi fu un progressivo scardinamento dell’economia e delle relazioni sociali preindustriali, causato dall’ascesa del mercato capitalistico, con la diffusione di nuove forme di produzione meccanizzata e di continue innovazioni tecniche: un contesto quasi interamente basato sul libero scambio, sulla domanda e offerta di «merci», compresa la forza lavoro. Poi iniziò un contro-movimento da parte della società contro gli eccessi di «mercificazione» e le loro conseguenze sociali.
Le associazioni sindacali e i partiti operai furono le forze trainanti di questa seconda fase della Grande Trasformazione. Sul piano istituzionale, le principali conquiste del contro-movimento furono i primi programmi di assicurazione sociale (introdotti nei due decenni prima della Grande guerra), i quali sottrassero il soddisfacimento dei bisogni di base dei lavoratori alla logica del mercato. Sul più ampio piano economico-sociale, l’esito del contro-movimento portò a ciò che Polanyi chiamava embedment : la ri-connessione fra i mercati e loro contesti sociali e politici, in modo da stabilizzare i primi e dinamizzare i secondi, mitigare i rischi e ampliare le opportunità. L’avvento della democrazia e del welfare prometteva così di addomesticare il capitalismo nei suoi aspetti più brutali.
Sfortunatamente, però, questo primo tentativo di riconciliazione si risolse in catastrofe: una grande guerra mondiale, poi il fascismo. Da un lato, le élite liberali (soprattutto nel mondo anglosassone) si mobilitarono per restaurare l’ordine capitalistico internazionale e la disciplina di mercato. Dall’altro lato, vi fu una spirale di radicalizzazione delle masse e in alcuni Paesi il collasso della democrazia parlamentare (Italia, Germania). Solo dopo una seconda carneficina bellica, l’incontro fra capitalismo e democrazia poté trasformarsi in un processo di mutua e sinergica collaborazione, consolidando ed espandendo il welfare state d’ispirazione «keynesiana».
Seppur scritto ottant’anni fa, il libro di Polanyi mantiene una straordinaria attualità per almeno due motivi. Innanzitutto, ci troviamo oggi nel mezzo di una seconda Grande Trasformazione. L’avvento della società post-industriale, l’apertura dei mercati, la globalizzazione, la cosiddetta quarta rivoluzione tecnologica sono i motori di un nuovo profondo cambiamento delle economie e delle società europee. La tradizionale struttura di rischi e opportunità dell’epoca fordista è andata progressivamente sgretolandosi. Territori, gruppi sociali, famiglie, persone si trovano ad affrontare situazioni non previste di bisogno e insicurezza. Il flusso di opportunità e di rischi è diventato più fluido e imprevedibile.
Come avvenne in corrispondenza della Grande Trasformazione novecentesca, il «primo movimento» della seconda – che oggi ha investito appieno le nostre società – provoca rotture e turbolenze. Le probabilità di accesso alle opportunità e di esposizione ai rischi sono distribuite in modo fortemente asimmetrico, alimentando una polarizzazione della diseguaglianza. Il cambiamento fa sì che le chance di vita delle persone perdano le àncore che le rendevano un tempo ragionevolmente stabili e prevedibili lungo il corso dell’esistenza. Il contro-movimento è già iniziato, ma per ora non è riuscito a dare un ordine alla nuova costellazione di rischi e opportunità: un ordine capace di favorire lo sviluppo economico e sociale e di salvaguardare al tempo stesso le garanzie liberaldemocratiche.
Lo Stato nazionale non è più in grado, da solo, di ricreare quest’ordine. I protagonisti delle conquiste sociali novecentesche fanno fatica ad accettare la necessità di ricalibrare il vecchio welfare. Ma la tentazione di arrestare i cambiamenti, di alzare i ponti levatoi per difendere le antiche cittadelle è destinata al fallimento. Come ben diceva, di nuovo, Polanyi, «la restaurazione del passato è impossibile, tanto quanto trasferire i nostri problemi su un altro pianeta». Solo l’Unione Europea ha una scala geoeconomica e geopolitica adeguata per promuovere nuove forme di embedment , capaci di neutralizzare gli effetti erosivi di natura sociale della Grande Trasformazione 2.0.
La seconda ragione che rende ancora attuale l’opera di Polanyi è la sua diagnosi della crisi interbellica, che minò le basi dei regimi democratici e aprì la strada alle involuzioni autoritarie, in particolare al fascismo. Stiamo correndo anche oggi un rischio simile di involuzione? Considerando gli sviluppi dell’ultimo quindicennio, vi è in effetti qualche ragione di preoccupazione. C’è chi sostiene, ad esempio, che la radicalizzazione neonazionalista e spesso xenofoba in corso in molti Paesi, da un lato, e l’intreccio fra populismo e capitalismo predatorio, dall’altro, siano i prodromi di nuove possibili spirali di instabilità.
Nel delineare i tratti del contesto che condusse al fascismo, nel suo libro Polanyi menziona l’ascesa di correnti intellettuali irrazionaliste, razziste e anticapitaliste; di leader demagogici, molto critici rispetto ai partiti e pieni di disprezzo nei confronti del «regime», ossia delle esistenti istituzioni democratiche. Furono questi fattori ad alimentare i movimenti di destra che infersero colpi mortali alla democrazia e alle garanzie costituzionali. È quasi superfluo sottolineare come alcuni di questi fattori si stiano oggi ripresentando, anche se sotto altre spoglie. A preoccupare sono soprattutto le tendenze illiberali che mettono in discussione alcuni fondamenti dello Stato di diritto: separazione dei poteri, uguaglianza davanti alla legge, limiti certi e codificati al potere esecutivo e alla sua discrezionalità. Pensiamo, per tutti, all’Ungheria di Viktor Orbán. Anche in questo caso, la soluzione va cercata a livello europeo. L’Unione ha una «costituzione» (i Trattati) e un sistema giuridico che le forniscono strumenti adeguati a contrastare queste tendenze con la stessa fermezza con cui vengono contrastati gli aiuti di Stato o la formazione di monopoli. È giunto il momento di attivare questi strumenti, per soffocare sul nascere ogni seme di neoautoritarismo.

Questo articolo è stato pubblicato anche su ‘La Lettura – Il Corriere della Sera’ del 12 Maggio 2024

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Per pesare si deve scegliere

di Maurizio Ferrera

Le elezioni europee si avvicinano, ma il dibattito resta tutto incentrato sulle liste. Sul piano programmatico, finora poche proposte e molti slogan: alcuni colpiscono per genericità («pace», Cinque Stelle), altri per fervore anti-europeo («più Italia, meno Europa», Lega).
In altri Paesi la discussione è più avanzata: pensiamo all’appello di Macron per trasformare l’Unione europea in una «potenza» sul piano globale. Tutte le federazioni europee dei partiti (tranne Identità e Democrazia, cui aderiscono fra gli altri Salvini e Le Pen) hanno presentato i loro programmi comuni. Lunedì scorso c’è stato il primo confronto televisivo in diretta fra i «candidati di punta» per la carica di presidente della Commissione. Incalzati da due bravissime giornaliste, otto leader politici hanno discusso a Maastricht su tre temi scelti da un campione di giovani europei: difesa e sicurezza, clima e democrazia. C’è da chiedersi se qualche dirigente di partito italiano ha avuto il tempo di ascoltare.
Sul palco c’era Ursula von der Leyen, candidata di punta del Partito popolare europeo (Ppe, cui aderisce Forza Italia). Non era mai successo che la presidente in carica della Commissione scendesse direttamente in campo per rispondere del proprio operato. Mancava invece un rappresentante dei Conservatori e Riformisti Europei (Cre), il raggruppamento presieduto da Giorgia Meloni.
È davvero un fatto curioso che i due gruppi con le ambizioni più radicali di cambiamento rispetto allo status quo non abbiano presentato l’uno un programma comune (Identità e democrazia, Id) e l’altro un candidato presidente comune (Cre). Un segno di forti divisioni interne? Uno sgarbo istituzionale? Probabilmente entrambi. E certo un disservizio per gli elettori. La destra è data in crescita da tutti i sondaggi, potrebbe persino diventare decisiva per la formazione di una maggioranza. Von der Leyen ha confermato che il Ppe non si alleerà mai con Identità e Democrazia, ma non ha chiuso le porte ai conservatori: «dipenderà da chi c’è nel nuovo Parlamento». Una frase interpretata come un’apertura selettiva a Fratelli d’Italia.
Veniamo ai temi. Nel dibattito sono emerse tre principali divisioni: fra Id e tutti gli altri; fra i partiti dell’attuale maggioranza parlamentare e la sinistra (con i verdi e i regionalisti in posizione spesso critica); fra socialisti e popolari all’interno della maggioranza. Con toni aggressivi e perentori, Anders Vistisen (Id) ha sparato a zero sulla «palude» di Bruxelles e la gestione Von der Leyen. In positivo ha parlato solo del proprio Paese, indicandolo come modello per tutti. È vero che la Danimarca ha molte virtù. Difficile però immaginare che gli altri ventisei Paesi, anche se fossero tutti guidati da governi euro-scettici, accetterebbero lezioni da Copenaghen. Senza la Ue, l’Europa delle patrie tornerebbe ad essere un coacervo di provincialismi nazionali, incapaci di coordinarsi fra loro e irrilevanti sulla scena globale.
Il principale punto di disaccordo con la sinistra ha riguardato difesa e sicurezza. Il candidato di questo raggruppamento ha invocato un immediato cessate il fuoco in Ucraina (di fatto legittimando le conquiste territoriali di Putin) e ha chiesto immediate sanzioni contro Israele (senza cenni alle responsabilità di Hamas). Quanto ai contrasti interni all’attuale maggioranza, il principale discrimine è stata la politica economica. Socialisti e verdi hanno sottolineato con forza la necessità di un piano a lungo termine di investimenti pubblici Ue. Le cifre indicate dai Verdi per finanziare la transizione energetica sono impressionanti: servirebbero fra i 300 e i 600 miliardi l’anno. E il leader socialista ha aggiunto che va significativamente incrementato anche il Fondo comune per la difesa. Nessuno dei due ha chiarito come reperire le risorse (debito comune?). Von der Leyen ha invece insistito sul coinvolgimento dei privati, completando l’Unione dei Capitali. Le stime di «leva» finanziaria appaiono tuttavia poco realistiche. La questione delle risorse diventerà senz’altro uno dei temi più scottanti della prossima legislatura. Soprattutto quando scadrà il Next Generation (2026) ed entrerà a pieno regime il nuovo Patto di Stabilità.
Già da questa breve sintesi si possono intuire le sfide che l’agenda Ue pone alle forze politiche italiane. Da noi le tre linee di divisione intersecano sia la maggioranza che l’opposizione. Nel campo largo della sinistra, ad essere fortemente divisive sono la sicurezza e la difesa: i Cinque Stelle hanno ormai abbracciato un pacifismo senza se e senza ma. Nel centro-destra i contrasti riguardano addirittura il processo di integrazione: marcia indietro (Lega)? cambio di rotta (Fratelli d’Italia)? avanti tutta (Forza Italia)?
Fra i grandi Paesi, l’Italia è l’unica ad avere oggi schieramenti parlamentari così eccentrici rispetto a quelli del Parlamento europeo. I partiti fanno bene dunque a preoccuparsi per le implicazioni delle elezioni di giugno. Ma non si tratterà unicamente di misurare i rapporti di forza a livello nazionale. L’esercizio più delicato sarà fare seriamente i conti con le priorità strategiche di governo e opposizione, a Roma come a Bruxelles.

Questo articolo è stato pubblicato anche su ‘Il Corriere della Sera’ del 3 Maggio 2024

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1924 – 2024: Cento anni di Sartori

di Maurizio Ferrera

Per i lettori del «Corriere», la figura di Giovanni Sartori resta indissolubilmente legata ai suoi brillanti editoriali, che con stile limpido e arguto spaziavano sui principali temi di attualità: dal controllo delle nascite al mutamento climatico, dal conflitto d’interessi all’immigrazione. Dopo il suo ritorno dagli Stati Uniti, le frequenti apparizioni televisive avevano reso il politologo fiorentino un personaggio pubblico. «Pensa», mi confessò una volta, «ora la gente mi riconosce per strada». Un riconoscimento certo non usuale per un uomo di studi, peraltro insignito di nove lauree honoris causa , tre life achievement awards e innumerevoli altri premi per meriti accademici.
Sartori è stato uno dei massimi scienziati politici del Novecento. Appartiene a buon diritto all’olimpo del classici grazie ai suoi fondamentali lavori sulla democrazia, l’analisi comparata della politica, la logica e il metodo delle scienze sociali. In una breve autobiografia scritta nel 1997, egli riassunse il proprio percorso come un misto di «caso, fortuna e ostinazione». Non menzionò l’elemento più importante: la sua straordinaria capacità di pensiero e ragionamento, l’arte di fare chiarezza, di attingere a saperi diversi per illuminare i problemi più complessi. Alcuni fra i suoi scritti più importanti sono stati dedicati alla formazione di concetti, classificazioni e tipologie. Per tutti i suoi allievi in Italia e nel mondo, la lezione più preziosa di Sartori è stata quella di prendere molto sul serio logica e metodo nell’analisi dei fenomeni politici e sociali.
Il retroterra disciplinare di Sartori era stato la filosofia: lesse Hegel mentre si nascondeva nella Firenze occupata dai tedeschi. Subì anche il fascino di Croce, dal quale trasse il modello del «pensare contro», l’uso della critica come punto di avvio della propria riflessione. Le sue vere passioni divennero presto la logica, intesa come scienza del ragionamento valido, e la politica, intesa come attività pratica suscettibile di studio sistematico. Per lui la scienza politica doveva essere un sapere empirico fondato su ipotesi teoriche controllate attraverso il metodo comparato. Un sapere rigoroso ma anche applicabile, capace di mettere a disposizione dei decisori politici proposizioni del tipo: «Se vuoi ottenere x, allora dovresti fare y».
Nei primi anni Sessanta Sartori divenne il primo professore ordinario di Scienza politica in Italia e nel 1971 fondò la «Rivista Italiana di Scienza Politica». Già ben inserito nei network di ricerca internazionali, nel 1976 decise di trasferirsi a Stanford e poi a New York, alla Columbia University. Tornò in Italia, al Cesare Alfieri, nel 1992, poco prima del suo pensionamento.
Oltre agli scritti metodologici, nella produzione scientifica di Sartori spiccano tre grandi libri. Il primo è Parties and Party Systems (1976, ri-edito nel 2010), nel quale l’autore ha elaborato un originale schema per l’analisi dei sistemi partitici democratici. Il caso italiano (degli anni Sessanta e Settanta) rientrava nel tipo «pluralismo polarizzato», caratterizzato da alta frammentazione, presenza di partiti antisistema e competizione elettorale centrifuga. Un sistema instabile e difficilmente governabile. La tipologia di Sartori ha avuto una vastissima eco internazionale. In Italia, il modello del pluralismo polarizzato ha soppiantato le interpretazioni precedenti basate sulla superficiale metafora del «bipartitismo imperfetto».
Con il secondo importante lavoro (Ingegneria costituzionale comparata , 1994) Sartori ha fornito un efficace esempio di scienza politica applicabile. La chiarezza con cui nel libro l’autore ha isolato le caratteristiche e gli effetti dei diversi tipi di regime politico ha dato un fondamentale contributo non solo al dibattito scientifico internazionale, ma anche alle discussioni politiche italiane sulle riforme istituzionali.
Il terzo libro fondamentale di Sartori è dedicato alla teoria democratica. La prima formulazione risale al 1957 ( Democrazia e definizioni ), quella più compiuta al 1987 ( The Theory of Democracy Revisited ). Sartori esamina la democrazia come concetto o tipo ideale, come insieme di istituzioni e pratiche del mondo reale e infine come modello prescrittivo. Il filo rosso che lega i tre piani è il rapporto fra democrazia e liberalismo. Secondo l’autore, la democrazia dei contemporanei è una «matassa a due fili». Quello liberale è il filo primigenio, il quale assegna priorità alla protezione politico-giuridica dell’individuo dallo Stato. Il filo democratico valorizza la partecipazione popolare e promuove inclusione ed eguaglianza. Il moderno Stato costituzionale è nato dal filo liberale, che si è poi intrecciato con quello democratico, nello sforzo di bilanciare fra loro l’individualità e l’ «egualità».
Per Sartori la «libertà da» aveva priorità sull’eguaglianza non solo sul piano storico, ma anche assiologico. «Nessuno sostiene che il contenuto della libertà si esaurisca nella libertà da. Ma .. è certo che se siamo “impediti” non c’è ulteriore o altra libertà positiva che possa seguire; eliminata la prima libertà della serie, il termine libertà diventa privo di significato». Parole controcorrente in un periodo in cui la sinistra sparava a zero sulla vacuità delle libertà formali, veicolo di oppressione borghese. Sartori non era conservatore, e in molti articoli sul «Corriere» mise in luce come la «libertà da» fosse un potente strumento per allargare l’autonomia individuale, ad esempio sui cosiddetti temi eticamente sensibili. E riteneva anche che un certo grado di eguaglianza fosse una condizione di libertà, purché all’interno dello Stato costituzionale. In caso contrario, la pulsione egualitaria della democrazia tende a degenerare nell’esercizio arbitrario del potere. Va osservato che Sartori era altrettanto critico nei confronti del liberismo. L’associazione operata dagli illuministi scozzesi fra la forma politica liberale e il laissez faire era da lui considerata una «disgrazia». È vero che l’appetito del demos per la sicurezza economica garantita dallo Stato può divorare la componente liberale della democrazia. Ma «il gretto utilitarismo e il semplicistico edonismo» possono essere altrettanto nocivi.
È quasi superfluo sottolineare tutta l’attualità di queste riflessioni a fronte di molti sviluppi oggi in corso. Quella che in molti chiamano recessione democratica è in realtà uno strisciante distacco della democrazia dai suoi fondamenti liberali, accompagnato, per giunta, da crescenti diseguaglianze. Negli anni Settanta, Sartori esortava a pretendere contemporaneamente più democrazia e più liberalismo. La ricetta resta più che mai valida. Ma oggi la priorità è tornata ad essere la difesa dei diritti civili e delle garanzie costituzionali: insomma, del liberalismo come teoria e tecnica della libertà individuale.

Questo articolo è stato pubblicato anche su ‘La Lettura – Il Corriere della Sera’ del 26 Aprile 2024

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I migranti e l’Europa più forte

di Maurizio Ferrera

Non è stato un bello spettacolo, ma alla fine il Parlamento europeo ha votato sì: tutte e dieci le misure del nuovo Patto sull’Immigrazione e l’Asilo sono state approvate l’altro ieri. Le reazioni sono state molto diverse, dal trionfalismo acritico alla condanna senza appello. Succede sempre così nel caso di pacchetti articolati e complessi, su temi delicati. Per un giudizio ragionato di sintesi conviene utilizzare criteri, per così dire, di sistema. Ad essere in gioco sono infatti elementi costitutivi di ogni comunità politica (inclusa la Ue, dunque): i confini territoriali e il loro controllo. In che misura il Patto rafforza la condivisione di sovranità su questo delicato fronte, sotto la guida della Ue?
Sappiamo che, per quanto riguarda il movimento delle persone, la Ue ha progressivamente neutralizzato le frontiere fra i Paesi membri: pensiamo all’area Schengen. Gli ingressi dall’esterno sono invece controllati dai governi nazionali, ai quali spetta di determinare i flussi regolari e di gestire quelli irregolari. La pressione migratoria colpisce i vari Paesi in modo asimmetrico. La rotta mediterranea è oggi quella di gran lunga prevalente e il famigerato Regolamento di Dublino scarica ogni responsabilità sui Paesi più esposti: l’Italia, la Grecia e in misura minore la Spagna. Un caso evidente di quanto la sovranità puramente nazionale possa causare svantaggi immeritati, in base a ciò che accade al di fuori dell’Europa.
Il Patto approvato mercoledì non abolisce Dublino, ma lo tempera sotto almeno tre profili. Primo, uniforma per tutti i Paesi le procedure di screening alle frontiere esterne, rendendole più veloci ed efficaci. Secondo, crea un sistema di condivisione degli oneri: una quota di irregolari «in eccesso» può essere trasferita da un Paese ad un altro. Se quest’ultimo non è disponibile, deve almeno fornire un contributo finanziario. Terzo, l’Ue stipula (ha già iniziato) dei partenariati con Paesi terzi, in modo da facilitare i rimpatri. Insieme alle operazioni della già vigente Guardia costiera comune, con il Patto la Ue compie un piccolo ma importante passo in avanti in termini di sovranità condivisa.
Le nuove misure chiudono poi una spaccatura politica profonda che si era aperta a metà del decennio scorso proprio sul tema dei confini. Il massiccio incremento di rifugiati provocato dalle crisi libica e la guerra in Siria aveva messo a nudo due drammatiche impossibilità: quella di una gestione puramente nazionale delle frontiere e quella di procedere verso una gestione più centralizzata. L’Ungheria di Orbán, appoggiata da Polonia, Cechia e Slovacchia, approfittò del momento per lanciare un guanto di sfida all’autorità di Bruxelles. Si rifiutò di applicare una decisione sul ricollocamento dei rifugiati fra Paesi, organizzò un referendum nazionale «contro l’Europa» (cui partecipò meno del 40% degli elettori) e attaccò apertamente il principio della supremazia del diritto europeo. Fu la pagina più buia dell’ Europa post-allargamento, che peraltro alimentò una vera e propria ondata di xenofobia ed euroscetticismo in molti Paesi (Italia compresa). 
Va dato atto a Ursula von der Leyen di aver saputo ricucire gli strappi, dando il via a un lungo e paziente negoziato a partire dal 2020. Il tema esplosivo dell’immigrazione esterna è stato trasformato da una questione di principio difficilmente sanabile (l’opposizione binaria fra sovranità nazionale o condivisa) ad un confronto più maneggevole e costruttivo sui termini specifici della gestione in comune.
Vi è infine un terzo aspetto. La percentuale di voti a favore delle dieci misure del Patto è stata piuttosto risicata. Ciò che conta è però che, nel complesso, abbia tenuto la maggioranza fra socialisti, popolari e liberali, senza frantumarsi lungo linee territoriali. Il Parlamento non esprime la volontà dei Paesi membri ma quella dei cittadini, rappresentati dai partiti in base a obiettivi e valori condivisi. Si tratta di una distinzione importante, che definisce la natura di un regime politico, la sua capacità di essere qualcosa di più di una confederazione tra stati sovrani che difendono solo i propri interessi. L’imminenza delle elezioni ha creato tuttavia qualche disturbo agli allineamenti partitici: ci sono state defezioni, per fortuna non decisive, da parte di alcune delegazioni nazionali. Per limitarci al caso italiano, all’interno del gruppo conservatore Fratelli d’Italia ha votato a favore (allineandosi ai popolari e dunque a Forza Italia) tranne che sulla misura riguardante la condivisione degli oneri, la più osteggiata da Orbán. Fra i socialisti, il Pd ha votato in modo quasi speculare al partito di Meloni, schierandosi a favore solo sulla condivisione degli oneri. Per come funziona il Parlamento europeo, le defezioni di chi fa parte della maggioranza fanno più danni di quelle in direzione contraria. I socialisti e democratici si sono sempre distinti per la capacità di votare uniti, componendo ex ante eventuali differenze di orientamenti. Speriamo si tratti solo di un incidente di percorso: è importante che la tradizione continui.

Questo articolo è stato pubblicato anche su Il Corriere della Sera del 11 Aprile 2024

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Progettiamo un condominio eco-sociale

di Maurizio Ferrera

Diritti e universalismo sono state le due principali bandiere del riformismo novecentesco. Cucite inizialmente nell’ambito liberal-riformista e poi socialdemocratico, esse hanno a lungo sventolato sull’edificio del welfare state «all’europea». Oggi entrambe hanno bisogno di essere ridisegnate per recuperare la loro capacità di guida e ispirazione.
L’universalismo fu pensato avendo in mente la struttura di classe relativamente omogenea dell’economia fordista. Il femminismo scandinavo ne ha messo in evidenza le congenite premesse patriarcali. La letteratura economica ha criticato la sua tendenza espansiva in termini di aumento della spesa pubblica. Il legame stretto con la cittadinanza nazionale e la fiscalità generale ha creato tensioni sociali e politiche al crescere dei flussi migratori e della mobilità intra-europea. Inoltre, con la sempre maggiore importanza dei servizi rispetto ai trasferimenti è emerso un limite evidente: l’universalità di un diritto non assicura la sua effettività in termini di risultati.
Nei servizi, infatti, è necessario organizzare e «confezionare» le prestazioni in modo che siano strettamente adattate alle condizioni individuali. Non ci sono definizioni legali o regole da cui dedurre gli specifici contenuti e le modalità di erogazione appropriate alle condizioni individuali. La logica dei servizi deve ispirarsi a un principio che suona come un ossimoro: l’universalismo differenziato. Senza buttare via il bambino dell’inclusione onnicomprensiva, l’approccio universalistico deve oggi accettare e accogliere la diversità.
Ciò ha implicazioni importanti anche per una delle componenti fondamentali del welfare europeo: la rete minima di sicurezza sociale. Oltre alla componente monetaria, è opportuno includere nella rete anche la fornitura di un pacchetto di servizi essenziali, in grado di «capacitare», cioè fornire le risorse di cui ciascun individuo necessita per «funzionare» secondo il proprio progetto di vita (nel senso esposto dal premio Nobel per l’Economia Amartya Sen). Nel dibattito, in analogia con basic income (reddito di base, Ubi) si usa l’espressione universal basic services (servizi universali di base, Ubs). Il pacchetto dovrebbe includere primariamente l’accesso a beni e servizi essenziali come acqua, cibo, abitazione, energia, igiene pubblica, sanità, istruzione e formazione, trasporti – fino alla comunicazione digitale e ai servizi finanziari.
I servizi di base dovrebbero essere finanziati dallo Stato per quanto riguarda la loro effettiva disponibilità sul territorio, calibrando contenuti ed accessi in base alle caratteristiche specifiche delle varie comunità. La differenziazione potrebbe riguardare anche le modalità di produzione dei servizi: non solo la pubblica amministrazione, ma anche attori ed enti non profit disposti a sussumersi obblighi di interesse pubblico. Quanto più possibile, tale produzione dovrebbe essere organizzata in modo partecipativo, con il coinvolgimento dei beneficiari (contando sulla loro «saggezza esperienziale»), di esperti, dei rappresentanti eletti e di «assemblee dei cittadini».
Il ripensamento dell’agenda riformista deve estendersi alla stessa concezione dei diritti sociali in quanto tali. Nel Novecento, dire welfare state coincideva con il dire spettanze soggettive di protezione, normate dalla legge e dunque «giustiziabili» di fronte a una Corte. La facoltà di ricorso formale lega una spettanza alla minaccia di coazione ex post . Se un cittadino ha bisogno di un servizio, ciò che conta è però la tempestiva fruizione di una prestazione di qualità nel posto in cui si trova. La giustiziabilità del suo diritto non lo protegge dalla possibile inadempienza di chi ha il dovere di fornirlo «qui e ora».
Mentre per il reddito di base resta valido il concetto di diritto soggettivo giustiziabile, per i servizi di base è più opportuno servirsi del termine «garanzia». Il «diritto» privilegia il lato della domanda (ciò che spetta al cittadino), la «garanzia» sposta l’enfasi sull’offerta (ciò che lo Stato è tenuto a fare). Lo strumento della garanzia è volto ad assicurare accessibilità e qualità delle prestazioni. Se i fornitori designati non ottemperano ai propri obblighi, scattano sanzioni. La condizionalità si sposta dalla domanda (ti erogo il servizio solo se ti comporti in un certo modo) all’offerta (ti finanzio il servizio – che è un tuo dovere istituzionale – solo se assicuri la effettiva fruizione, se no scattano poteri sostitutivi). Gli utenti conserverebbero la facoltà di reclamo tramite procedure organizzate, ma non giudiziali.
La garanzia dei servizi di base si presta a diventare anche il primo nucleo di una nuova «cittadinanza verde», legata a sostenibilità e ambiente. La concezione classica dei diritti sociali non faceva alcun riferimento al «luogo» di fruizione: il cittadino era visto come parte di una comunità sociale e politica, ma non di un eco-sistema. Tale lacuna non è più ammissibile. Ambiente e clima condizionano in modo sempre più incisivo le condizioni di vita. Lo stesso welfare state lascia «impronte ecologiche» dannose in via diretta (pensiamo ai rifiuti sanitari) sia indiretta (tramite i consumi dei beneficiari). La garanzia dei servizi di base potrebbe incorporare standard di produzione e consumo verdi, soprattutto nei settori dei trasporti, dell’energia, dell’edilizia sociale e più in generale in tutti gli investimenti in infrastrutture. Per quanto riguarda i cittadini-utenti, la fruizione dei servizi essenziali potrebbe essere accompagnata da «spinte gentili» ( nudging ) che incentivino comportamenti eco-sostenibili.
Il Pilastro europeo dei diritti sociali, adottato nel 2017, enumera già il diritto ai servizi essenziali (oltre, naturalmente, a scuola, sanità, assistenza). Sono menzionati sei ambiti: acqua, servizi igienico-sanitari, energia, trasporti pubblici, servizi finanziari e comunicazioni digitali. Secondo la Rete europea per la politica sociale (Espn), il diritto all’acqua e ai servizi igienico-sanitari è garantito in tutti gli Stati membri, ma con ampie variazioni geografiche per quanto riguarda sia i livelli che le pratiche. La variazione è maggiore nelle politiche che affrontano la povertà energetica, con un mix di sostegno diversificato. La disponibilità e l’accessibilità economica dei servizi di trasporto pubblico (soprattutto quelli eco-sostenibili) sono promosse attraverso varie misure di sostegno locale, che spesso non sono mirate direttamente i gruppi sociali più vulnerabili. Il divario digitale è molto elevato.
Seppure con molta difficoltà, la Commissione guidata da Ursula von der Leyen ha avviato un promettente lavoro di analisi per identificare un pacchetto di standard comuni che dovrebbero essere applicati da tutti i Paesi dell’Unione Europea per rafforzare la rete di sicurezza sociale, in termini sia di reddito sia di servizi.
E qui arriviamo al terzo fronte dell’agenda riformista: il passaggio da una cornice nazionale ad una composita, estesa non solo verso il basso (Regioni e Comuni) ma anche e sempre di più verso l’alto (la Ue). La sfida non è quella di edificare un welfare federale centralizzato, ma piuttosto un «condominio eco-sociale» capace di accomodare al proprio interno i welfare state nazionali (gli «appartamenti» del condominio), di sorreggerli e guidarli in un contesto già caratterizzato da un mercato e una moneta unica. Come per tutti i condomini, ci sarebbe bisogno di una adeguata cassa comune, di sicuro più capiente dell’attuale bilancio sociale della Unione Europea.

Questo articolo è stato pubblicato anche su La Lettura – Il Corriere della Sera del 31 Marzo 2024

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È in arrivo il primo triliardario

di Maurizio Ferrera

La seconda metà del XX secolo registrò due importanti sviluppi sul fronte dell’uguaglianza. Il primo fu la Grande Redistribuzione – secondo la definizione dell’economista francese Thomas Piketty – all’interno dei Paesi sviluppati. Alta crescita, istruzione e il welfare state promossero più benessere e più mobilità, riducendo le distanze fra classi sociali.
Il secondo sviluppo fu invece la Grande Convergenza – l’espressione coniata dall’economista Robert Baldwin – fra Paesi del Nord e Paesi del Sud del mondo. Grazie alla liberalizzazione dei commerci, il 40 per cento più povero della popolazione mondiale vide migliorare le proprie condizioni. L’integrazione nell’economia mondiale di Cina, India, Russia, India, con il rapido sviluppo di Corea del Sud, Taiwan, Brasile, consentì dal canto suo l’espansione delle classi medie di quei Paesi.
Entrambi gli sviluppi si sono oggi arrestati. A cavallo del secolo le diseguaglianze hanno ricominciato ad aumentare in seno all’area Ocse. La pandemia ha segnato un vero punto di rottura. In soli tre anni, dal 2020 al 2023, i cinque miliardari più ricchi del mondo hanno visto raddoppiare la propria ricchezza. Il reddito della classe media è invece significativamente diminuito, complici il Covid e l’aumento del costo della vita. I dati di Oxfam segnalano inoltre che nell’ultimo biennio si è interrotta la Grande Convergenza fra il Nord e il Sud globali. Ben cinque miliardi di persone – prevalentemente in Africa – hanno peggiorato le proprie condizioni di vita, molte sono ricadute in situazioni di povertà estrema.
Per raffigurare il sistema delle diseguaglianze globali l’economista Branko Milanovic aveva proposto qualche anno fa la metafora della «curva dell’elefante». La coda (rivolta vero il basso) stava a indicare i bassi livelli di reddito nei Paesi sotto-sviluppati. Il dorso a gobba stava a indicare il massiccio incremento del reddito dei Paesi emergenti. La base della proboscide (rivolta vero il basso) segnalava la profonda caduta dei redditi della massa media dei Paesi sviluppati. E infine la punta della proboscide (rivolta verso l’alto) rappresentava il decile più ricco della popolazione.
La curva c’è ancora, ma negli ultimi tre anni l’elefante ha cambiato profilo. La coda e la base della proboscide si sono abbassate (aumento della povertà nel Sud, soprattutto in Africa, ulteriore perdita di reddito del ceto medio nel Nord), mentre il dorso si è un po’ appiattito (meno crescita nei Paesi a medio livello di sviluppo). Il mutamento più sorprendente ha riguardato però la punta della proboscide, che si è fortemente inarcata verso l’alto. È su quella punta che troviamo le persone più ricche del mondo. Come mostra l’immagine di questa pagina, la concentrazione della ricchezza non riguarda soltanto gli Stati Uniti, ma è ben visibile in molti altri Paesi, specialmente Messico, Perù, Cile e Costa d’Avorio.
Sta forse iniziando una nuova fase di Grande Ri-polarizzazione? Possibile, e molto preoccupante, anche sotto il profilo politico. Purtroppo non sarà facile invertire questa tendenza, affrontando sia le divaricazioni interne sia quelle fra Nord e Sud. Nei Paesi sviluppati, la sfida è quella a suo tempo identificata da Luigi Einaudi: «abbassamento delle punte» e «innalzamento dal basso». Einaudi proponeva incisive imposte di successione e politiche di sostegno ai ceti più svantaggiati, a cominciare da istruzione e reddito minimo.
Essendosi allargata moltissimo la forbice tra ricchi e poveri, Piketty ha recentemente fatto una proposta provocatoria: imposte patrimoniali e di successione calibrate in modo da finanziare una «eredità universale» a ciascun giovane. Il suo importo dovrebbe essere di circa il 60 per cento del patrimonio per adulto: in Francia ciò equivarrebbe a circa 120 mila euro, da versare all’età di 25 anni. Anche a prescindere dalla sua radicalità redistributiva, è chiaro che una proposta del genere non ha alcuna chance di praticabilità politica. Ma le punte vanno abbassate e lo strumento più efficace restano le imposte di successione. Per i più vulnerabili, invece, è imperativo rendere più robusti i servizi universali, aumentare il reddito minimo e lanciare un’ambiziosa strategia di investimenti sociali.
Far ripartire il motore della convergenza fra Nord e Sud globali non sarà meno difficile. Gli effetti della pandemia si stanno ancora facendo sentire, la globalizzazione «corta» può escludere dalle catene del valore le economie più deboli, che il cambiamento climatico sta rendendo più vulnerabili. La rivoluzione digitale potrebbe aiutare enormemente queste economie, ad esempio attraverso lo sviluppo di agricoltura di precisione. Per attrarre investimenti servono tuttavia classi politiche interessate e capaci di far funzionare le macchine pubbliche e qui i progressi sono purtroppo scarsi e lenti.
Nel frattempo la pressione dell’immigrazione irregolare e l’accresciuta insicurezza socio-economica erodono la coscienza globale delle classi medie del Nord del mondo. Un circolo vizioso che avvantaggerà ancora di più gli iper-ricchi e forse farà avverare la previsione di Oxfam: entro il 2030 farà la sua apparizione il primo «triliardario», ossia una persona che da sola avrebbe a disposizione mille miliardi di dollari.

Questo articolo è stato pubblicato anche su La Lettura – Il Corriere della Sera del 24 Marzo 2024

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I giovani talenti per l’Italia

di Maurizio Ferrera

Il partenariato strategico con l’Egitto, avviato con il recente viaggio al Cairo di Giorgia Meloni, Ursula von der Leyen e tre altri primi ministri Ue, è stato criticato per due motivi. L’Egitto è un Paese autoritario che non rispetta i diritti umani; i fondi che la Ue trasferirà saranno principalmente destinati a bloccare le partenze di migranti, minacciando la loro sicurezza. Le preoccupazioni sono fondate, ma il partenariato contiene molti altri progetti, fra cui misure volte a facilitare l’ingresso regolare in Europa di giovani qualificati. Può sembrare una iniziativa di poco conto, o addirittura una foglia di fico. Ma se ben finanziata e organizzata, la «mobilità internazionale dei talenti» aiuterebbe l’economia egiziana e contribuirebbe a risolvere la sfida demografica dell’Europa. Per sostenere economicamente l’invecchiamento della popolazione, i Paesi Ue hanno bisogno di più crescita e innovazione. Senza un rapido incremento delle competenze dei giovani (in particolare nelle discipline Stem), questo obiettivo risulta difficilmente raggiungibile. In diversi Paesi Ue e in molte regioni al loro interno il «bacino dei talenti» è attualmente sottodimensionato. La quota di laureati nella classe di età 25-34 è pari al 41% in media Ue, solo il 21% in Italia. Un numero già oggi insufficiente per riempire i posti di lavoro nei settori dell’economia verde, di quella digitale e di quella «bianca» (servizi socio-sanitari).
L’incremento del tasso di laureati è un imperativo, ma il declino della natalità sta riducendo la platea di giovani. In Italia nel 2022 sono nati meno di 400 mila bambini, con un calo del 25% rispetto al 2012. Anche se, grazie a investimenti e incentivi, i nuovi nati si laureassero tutti (cosa ben poco probabile), fra una trentina d’anni il capitale umano disponibile non sarebbe comunque sufficiente. Occorre perciò mettere a punto una seconda e complementare strategia: attrarre talenti dai Paesi Terzi, favorendo l’immigrazione di giovani qualificati.
È qui che entrano in gioco i partenariati strategici. La Commissione vuole creare una piattaforma Ue per facilitare l’incontro fra domanda di talenti delle imprese europee e l’offerta disponibile nei Paesi partner (e altri). Il fulcro dell’iniziativa sarebbe la semplificazione delle assunzioni internazionali e delle procedure di riconoscimento delle credenziali educative e professionali. Quella della certificazione è in effetti una sfida enorme. L’iter amministrativo è complesso, con tempi molto lunghi e esiti incerti, soprattutto per le professioni regolamentate. Durante la pandemia Covid, questi problemi sono emersi con particolare chiarezza e intensità per quanto riguarda le professioni sanitarie. Eurostat stima che oltre un quarto dei residenti extra-comunitari sia già altamente qualificati, ma quasi la metà svolge mansioni di livello molto inferiore: un enorme spreco di cervelli.
La piattaforma ha proprio il fine di definire procedure di accertamento e convalida armonizzate, facilitate e digitalizzate (anche per professioni regolamentate); estendere la «carta blu» per laureati, rafforzando il pacchetto di benefici cui essa dà diritto; promuovere il coinvolgimento delle delegazioni Ue all’estero. Per l’Italia il vantaggio sarebbe enorme. I migranti extra-Ue che chiedono il riconoscimento delle credenziali devono oggi affrontare un percorso a ostacoli che svolge forti effetti dissuasivi.
I Paesi africani (a cominciare da quelli mediterranei) hanno abbondanza di giovani, ma sistemi educativi ancora poco sviluppati. Per evitare che la mobilità dei loro talenti verso la Ue sottragga risorse preziose, i partenariati dovrebbero prevedere almeno due contromisure, in parte già contemplate. Innanzitutto, forme di assistenza tecnica e finanziaria per espandere e migliorare scuola e istruzione superiore in loco. In secondo luogo, nuove forme di migrazione «circolare». I giovani qualificati egiziani, ad esempio, potrebbero essere incentivati a tornare nel proprio Paese dopo un certo periodo, tramite congedi o distacchi di durata predefinita e comunque senza perdere il diritto di tornare eventualmente in Europa.
I circoli virtuosi sono più facili a dirsi che a farsi. Dubbi e critiche sono sempre legittime e spesso utili. Ciò che non serve è però «gridare al lupo», come molti hanno fatto negli ultimi dieci giorni. Egitto e Tunisia hanno governi repressivi e regimi illiberali, nessuno può negarlo. Però sappiamo che le autocrazie prosperano laddove c’è molta povertà e poca classe media. Gli aiuti allo sviluppo servono anche per erodere il terreno che sorregge i leader autoritari. Dal canto suo, è vero che la Ue non può limitarsi a mettere dei «tappi» in Africa contro l’immigrazione clandestina, rinunciando ai propri doveri umanitari. Ma ciò non vieta che possa facilitare gli accessi di certe categorie.
I partenariati devono navigare fra Scilla e Cariddi, tenendosi lontani dalla logica delle connivenze con i dittatori e dei respingimenti forzosi. Se gestite con un pragmatismo orientato alla reciprocità e rispettoso della dignità, queste iniziative possono tuttavia produrre giochi a somma positiva e meritano dunque fiducia e sostegno.

Questo articolo è stato pubblicato anche su Il Corriere della Sera del 20 Marzo 2024

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L’Europa non parte da zero

di Maurizio Ferrera

Nel 2008, durante una missione in Africa, il sergente Gilles Polin fu ucciso da una pallottola dell’esercito sudanese. Il primo caduto in nome dell’Europa indossava una uniforme francese, sulla quale era cucita la bandiera della Ue. Si trattava infatti di un’operazione Eufor, sotto il comando di un ufficiale irlandese, con militari svedesi, belgi, austriaci, francesi e irlandesi. Un triste evento, e purtroppo solo una goccia nel fiume della violenza che ancora scorre in molte aree del mondo.
L’episodio offre tuttavia almeno tre preziosi spunti di riflessione. Primo: il nucleo di una difesa europea è già esistente. Da quasi vent’anni la Ue è impegnata in missioni estere: attualmente ne sono in corso 21, di cui 9 a carattere militare, coordinate dallo stato maggiore della Ue (sì, esiste). Non c’è ancora un esercito permanente, però sono attivi numerosi «gruppi tattici» (battaglioni) multinazionali, pronti a mobilitarsi in caso di necessità. Ci sono una anche una Agenzia europea per la Difesa e un Fondo per la pace, che finanzia aiuti militari (ad esempio all’Ucraina), con una dotazione di 12 miliardi di euro. Il secondo spunto riguarda gli obiettivi strategici: la difesa europea ha fini protettivi e preventivi. Le armi hanno funzione deterrente e sono usate in contesti (ieri in Ciad, oggi in Ucraina) dove qualcun altro ha iniziato la guerra. Le bombe di Putin costituiscono una crescente minaccia, soprattutto in caso di disimpegno americano. I dispositivi di sicurezza vanno oggi rafforzati non solo per promuovere la pace ma anche per garantire la protezione del territorio e dei cittadini Ue. Terzo spunto: le truppe Ue non possono che indossare un doppio cappello, nazionale ed europeo. Anche ai militari si applica infatti la logica della cittadinanza europea, che si sovrappone ma non sostituisce a quella nazionale.
Ai funerali del sergente Polin erano presenti non a caso sia il presidente francese Sarkozy, sia l’Alto Rappresentante della politica estera e di sicurezza Ue Solana. Il doppio cappello crea inevitabilmente tensioni, ma è un vincolo collegato alla natura stessa della Ue come sistema multi-livello, privo di un autonomo centro federale. Per tante ragioni, i governi nazionali non condividono volentieri la sovranità militare. Il realismo impone di evitare sia le fughe in avanti sia la rassegnazione. Macron ha ecceduto in ambizione quando ha detto che l’Europa farà «tutto ciò che serve» per difendere l’Ucraina. D’altra parte, le critiche di Scholz hanno sorpreso: la sua riluttanza ad agire è in realtà smentita dalle iniziative già in corso, sostenute anche dalla Germania.
Se non partiamo da zero, la domanda da porsi è ora: dove andiamo da qui? Qualche giorno fa Ursula von der Leyen ha usato la formula giusta: va costruita una Unione europea della difesa, capace di creare maggiori sinergie fra le forze armate nazionali, mobilitare il bilancio Ue per gli investimenti in difesa e realizzare una infrastruttura comune di deterrenza e protezione. Il modello organizzativo potrebbe essere quello della Unione europea della salute, realizzata in soli due anni durante il Covid. Un precedente importante sia per il finanziamento comune (a valere in quel caso sul Next Generation Eu) sia per il conferimento alla Commissione di una nuova prerogativa: quella di dichiarare lo stato di emergenza. Sappiamo che le opinioni pubbliche sono poco informate e poco disposte a fare sacrifici sul piano del welfare per accrescere le risorse a disposizione per la difesa. I governi non hanno interesse a parlare di questi temi agli elettori. Lo potrebbero fare i partiti: i loro leader non possono ignorare che la prosperità economica e sociale presuppone la sicurezza fisica. A giudicare dalle prime mosse della campagna elettorale europea, questa consapevolezza sta finalmente emergendo. I due principali partiti europei, socialisti e popolari, hanno appena adottato i propri manifesti (altri partiti non ancora). Entrambi prendono atto della nuova minaccia russa e della necessità di rafforzare difesa e sicurezza. Vi sono però orientamenti diversi per quanto riguarda le capacità militari. Il manifesto socialista si limita a pochi cenni, mentre quello dei popolari contiene indicazioni più dettagliate, che ricalcano l’agenda von der Leyen. Si auspica un esercito permanente capace di risposta rapida, un ombrello anti missile e uno scudo nucleare. E si propone un Fondo per le operazioni militari esterne a cui dovrebbero contribuire tutti i Paesi, anche quelli che non sono disposti a mobilitare i propri soldati. Proposte esplicite, impensabili in passato. Si dice spesso che in Europa i partiti non contano. Non è proprio così. Molte delle riforme in discussione richiedono l’assenso del Parlamento europeo. Per loro natura, i partiti agiscono in una logica trans-nazionale, utile per temperare i conflitti tra fra Paesi. Il ruolo principale che i partiti possono svolgere è però soprattutto quello di parlare all’opinione pubblica. Tocca a loro spiegare che il mondo è diventato più insicuro, che gli sforzi diplomatici e le missioni umanitarie da soli non bastano. Il rafforzamento di una difesa comune europea non è più rinviabile. E non può essere un pasto gratis.

Questo articolo è stato pubblicato anche su Il Corriere della Sera del 7 Marzo 2024

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L’autonomia e il modello europeo

di Maurizio Ferrera

L’autonomia differenziata continua a infiammare il confronto politico. Abbondano però molte valutazioni generiche e fumose. Si trascurano ad esempio tre dati di fatto da cui dovrebbe partire ogni discussione. Primo, la Costituzione prevede che le Regioni possano gestire in prima persona vari settori rilevanti per la vita dei cittadini. Secondo, la concessione dell’autonomia è subordinata alla definizione per via legislativa dei cosiddetti «livelli essenziali delle prestazioni» (Lep), per garantire uniformità territoriale. Terzo, il divario fra Regioni è oggi scandaloso. E, quel che è peggio, lo è anche in quegli ambiti (come la sanità) ove già esistono i livelli essenziali. Qualcosa, evidentemente, non funziona. La (ri)definizione dei Lep è una occasione preziosa non solo per cambiare i rapporti fra Regioni e fra queste e lo Stato, ma soprattutto per migliorare davvero la disponibilità e la qualità delle prestazioni ai cittadini.
Per uscire dal vago e procedere in questa direzione, è opportuno guardare all’Europa. A Bruxelles è in corso da tempo un dibattito poco conosciuto in Italia, che riguarda proprio la fissazione di standard uniformi e la riduzione delle divergenze fra Paesi. La Ue costituisce un laboratorio ideale in quanto può permettersi di decidere ex novo, senza l’ingombro di una cornice legislativa pre-esistente.
Sabino Cassese — che presiede il Comitato Tecnico sui Lep — ha osservato che il vigente quadro italiano è un coacervo quasi inestricabile di previsioni normative, interpretazioni giurisprudenziali, vuoti di disciplina, indicazioni implicite. Una «terra incognita» e paludosa, su cui è molto difficile costruire. Per identificare gli standard, la Ue è partita dal fondo, per così dire: ossia dagli esiti effettivi delle politiche (ad esempio i livelli di povertà o i risultati scolastici) piuttosto che dalle spese o le norme di legge. Ogni anno la Commissione misura i divari, individua le situazioni critiche e raccomanda misure di correzione. Non sorprende che per l’anno in corso l’Italia sia stata giudicata deviante in ambiti cruciali come le competenze digitali, la povertà infantile, la copertura dei nidi, la quota di giovani che non studiano e non lavorano (Neet), l’inserimento lavorativo delle persone vulnerabili, la formazione. Nessuno ne ha parlato: un peccato, perché la bocciatura Ue solleva interrogativi centrali anche per la questione Lep.
La divergenza italiana è dovuta solo ai divari regionali interni, che abbassano la media? Oppure mancano (sono inadeguati o inapplicati) i livelli essenziali? Perché in alcuni contesti i cittadini non fruiscono di prestazioni che pure ci sono (il caso dei Neet)? La fumosità del confronto politico italiano è anche dovuta a ignoranza empirica. Per superarla, sarebbe utile pubblicare ogni anno un rapporto comparativo sulle prestazioni regionali, sottoponendo a valutazione approfondita le situazioni di ritardo e criticità. Secondo la Commissione Ue, i deficit di performance dipendono principalmente da questi fattori: la scarsità di offerta (ad esempio, pochi nidi), i costi troppo elevati per gli utenti, gli ostacoli anche pratici all’accesso (inclusa l’assenza di informazioni), la bassa qualità. Ogni aspetto andrebbe misurato, monitorato e valutato.
Ridurre la questione Lep alla enumerazione di un certo ventaglio di prestazioni «obbligatorie» non è certo sufficiente per migliorare le cose: il caso della sanità lo conferma in modo lampante. Il vero nodo della questione Lep è la qualità. È su questo terreno che si gioca il successo di ogni riforma. Il concetto ha tante sfaccettature. Ci sono però alcuni fattori che hanno un impatto ovvio e trasversale, qualunque sia l’ambito d’intervento. Fra questi, spicca la buona gestione. Che non vuol dire solo rispetto delle norme, ma soprattutto disporre di personale adeguato e preparato, di una organizzazione flessibile e in grado di aggiornare e rafforzare le competenze dei propri operatori. E gli standard di buona gestione devono essere vagliati periodicamente tramite esercizi ispettivi interni ed esterni, capaci di cogliere i punti deboli, imputare responsabilità e proporre soluzioni.
La sfida della qualità è al centro dell’agenda in molti Paesi. Il percorso più diffuso è questo: si definisce una cornice di indicatori di qualità e poi li si applica a un campione volontario di Regioni o Comuni. Chi fa meglio riceve una sorta di «bollino blu», che aiuta gli utenti e responsabilizza politici e amministratori. Non è necessario partire da zero. La Ue mette già a disposizione un proprio Quadro per la valutazione dei servizi di interesse generale. È troppo chiedere che la questione dei Lep e più in generale del federalismo fiscale venga affrontata partendo da qualità ed efficacia, invece che da una semplice razionalizzazione della «terra incognita» esistente? Si tratta di aprire un cantiere, con tempi lunghi: di avviare un processo, come ha suggerito Sabino Cassese. Ma ricordiamo che la garanzia di livelli essenziali e omogenei è il cuore della cittadinanza. Non riduciamola a un tiro alla fune finanziario tra Nord e Sud, tra presidenti e sindaci di diverso colore politico. Approfittiamone invece per stimolare un salto di qualità dello Stato e delle Regioni (tutte), realizzando così le promesse della Costituzione.

Questo articolo è stato pubblicato anche su Il Corriere della Sera del 20 Febbraio 2024

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Sabino Cassese – Miseria e Nobiltà d’Italia

di Maurizio Ferrera

Non è la prima volta che Sabino Cassese scrive un libro composto di dialoghi. Una forma di esposizione che l’autore ritiene particolarmente adatta a far capire che la realtà è complessa e va decifrata tramite una pluralità di punti di vista. Il suo nuovo libro, pubblicato da Solferino, è intitolato Miseria e nobiltà d’Italia . Il nostro Paese è pieno di contraddizioni, dice Cassese, difficile da stringere in una sintesi: quale genere di scrittura è dunque meglio di un dialogo per ragionare «sullo stato della nazione»?
I trentuno (brevi) capitoli toccano i vari temi cari all’autore, dalla Costituzione alla burocrazia, dalla democrazia ai diritti, dal sottogoverno ai partiti. Ciascun capitolo è costruito come scambio di idee fra personaggi immaginari, uomini politici del passato, filosofi e pensatori. La scelta non è casuale, dipende dall’argomento, ma anche dall’aspetto che Cassese vuole cogliere e sottolineare: il ragionamento sui pro e i contro, la passione emotiva, gli interessi concreti dei dialoganti.
Prendiamo il caso della pubblica amministrazione. In un capitolo di taglio generale, a dialogare sono Aristocratico e Plebeo. Il primo difende il punto di vista dell’élite tecnico-politica: siccome la burocrazia non funziona, è opportuno lasciar spazio a un ceto dirigenziale di nomina partitica, che faccia da cerniera fra potere politico e apparato esecutivo. Plebeo difende invece il punto di vista del cittadino, a cui premono i risultati: le nomine partitiche frustrano l’amministrazione senza incentivare efficienza e produttività.
In un secondo capitolo sul tema, a parlare sono invece un imprenditore, un burocrate e un politico. Il primo si lamenta per la lentezza, la scarsa trasparenza, i troppi intralci. Il burocrate controbatte che non è colpa sua, ma della classe politica, capace solo di fare riforme «all’ingrosso», difficili da applicare. Il politico, dal canto suo, se la prende con i funzionari: mancano di iniziativa, non forniscono informazioni sulle questioni che governo e Parlamento possono gestire solo dal centro.
La tensione fra miseria e nobiltà che percorre il libro a volte assume toni emotivi, diventa una questione di rassegnazione oppure di speranza. Ad esempio: quanto robusta è la democrazia italiana? In questo dialogo parlano Rassegnato e Speranzoso. Il primo vede solo nero: frammentazione dei partiti, un Parlamento vuoto, governi incapaci di decidere, dibattiti sterili. Quante volta leggiamo o ascoltiamo sui media questi j’accuse ? Speranzoso confida invece nel futuro e suggerisce di non fare di ogni erba un fascio. La crisi dei partiti, ad esempio non è una «miseria» solo italiana, affligge tutte le democrazie. Stessa cosa per la lentezza delle decisioni, dovuta ad un costante allargamento nel tempo del perimetro di azione dei poteri pubblici. I continui dibattiti riflettono poi la dialettica fra istituzioni. E quando il sistema s’inceppa, la nostra democrazia debole contiene degli anticorpi che altri Paesi non hanno: ad esempio la disponibilità e capacità di affidare il governo ai «tecnici».
Non è facile indovinare, nei vari dialoghi, da che parte si schieri Cassese. A volte il professore è chiaramente il personaggio che parla per ultimo. Ma non sempre è così. Il suo punto di vista si distribuisce equamente tra i protagonisti, come nel caso di Demo e Ademo, ai quali dobbiamo una intensa conversazione su virtù e vizi della partecipazione popolare, a fronte della sempre maggiore necessità di competenza nelle decisioni collettive. Nel capitolo sul «rito della democrazia», Cassese mette poi in scena un vero e proprio coro di spiriti magni, da Socrate a James Madison, da Carl Schmitt e Hans Kelsen, Lenin, Karl Popper, John Stuart Mill, Edmund Burke e altri ancora. Ciascuno posa il proprio tassello per costruire il puzzle della casa democratica, il cui fondamentale collante è l’obiettivo di evitare il dispotismo e le dittature.
Il libro ha una introduzione, ma non una conclusione. Perché il messaggio complessivo di Cassese non sta nella sostanza, ma nel metodo. Immersi come siamo in una realtà prismatica e ambivalente, lo strumento più efficace per orientarci è, appunto, il confronto dialogico basato sulla ragionevolezza, sull’apertura mentale, sulla critica costruttiva. La quale denuncia le miserie, ma sa anche riconoscere le nobilità. Nel dialogo sulla pubblica amministrazione, il funzionario che parla sembra un ingegnere del Politecnico: cita dati, sa come vanno le cose all’estero, probabilmente lavora in un’isola dell’arcipelago-Stato in cui la burocrazia è preparata. Anche il politico a tratti sembra una mosca bianca: non pensa al consenso, ma alla risoluzione dei problemi. Del resto, se il Paese resta a galla, devono pur esserci delle buone pratiche, delle persone capaci. Che «andrebbero messe in vetrina», come suggerisce implicitamente Cassese, per risollevare l’immagine pubblica del nostro sistema politico-amministrativo e far leva per migliorarlo.

Questo articolo è stato pubblicato anche su Il Corriere della Sera del 3 Febbraio 2024

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