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EUtopia può vincere. Ce lo insegna Weber

Secondo la nota definizione di Otto von Bismarck, la politica è l’”arte del possibile”: un’attività che si svolge lungo le frontiere della realtà, fra i vincoli del presente e le opportunità del futuro. Ma come si fa a identificare lo spazio del politicamente possibile? Le strategie sono essenzialmente due. La prima è realista: si può fare solo ciò che è permesso dal contesto esistente, risolvendo i problemi con i mezzi disponibili componendo i conflitti all’interno delle istituzioni vigenti. La seconda strategia è idealista: la realtà può essere trasformata, anche radicalmente, in base a grandi progetti e a visioni utopiche, capaci di guardare oltre l’orizzonte del qui e ora.

Il Novecento ha prevalentemente seguito, nel bene e nel male, la via idealista. Ha costruito utopie palingenetiche come il comunismo o il nazi-fascismo e in alcuni contesti le ha imposte con la forza, aprendo inediti orizzonti di sopraffazione. Ma ha anche elaborato ideologie imperniate su consenso e diritti, come la liberaldemocrazia, il socialismo democratico, il cristianesimo popolare. Temperando le ambizioni ideali con il pragmatismo e soprattutto con il rifiuto della violenza, queste “utopie gentili” hanno ispirato trasformazioni politiche straordinarie, dal suffragio universale al welfare state.

Il nuovo secolo si è aperto all’insegna di un ripiegamento iper-realista. La globalizzazione ha enormemente complicato i problemi, che ormai travalicano i confini nazionali. Vittime del loro successo, le ideologie del Novecento hanno perso capacità di orientamento e motivazione. La politica ha così smarrito le tensioni ideali, riducendosi a governo dell’esistente, alla gestione degli “imperativi sistemici” connessi al funzionamento dei mercati e della moneta. Dalle utopie palingenetiche e assolutiste di un secolo fa, si è passati all’estremo opposto: programmi di governo il cui unico scopo è realizzare “che è necessario”, secondo i dettami di istituzioni tecnocratiche.

Stabilità dei mercati e crescita sono importanti beni politici, ma non certo gli unici. Sulla scia delle eredità novecentesche, contano anche l’equità distributiva, la solidarietà, i diritti di libertà e di partecipazione democratica. Se la politica non riesce a conciliare tutti questi valori, il prezzo da pagare è molto alto. Lo vediamo con l’ascesa del populismo, il quale raccoglie e aizza il malcontento della “gente” contro le “élite”, sottrae legittimità allo status quo ma è incapace di elaborare proposte coerenti e costruttive.

Come recuperare la dimensione ideale in questo contesto? Parafrasando Weber, come neutralizzare lo “specialismo senza spirito” della politica tecnocratica e al tempo stesso il “particolarismo senza cuore” dei populismi neo-nazionalisti (spesso xenofobi)?

La sfida riguarda con particolare urgenza il nostro continente. E la soluzione non può che passare dal rilancio di un’altra utopia gentile del secolo scorso: l’integrazione europea. Questo progetto è caduto nella palude dell’iperrealismo. Va invece rilanciato come grande disegno volto a ricombinare gli ideali novecenteschi (tutti)su scala post-nazionale, facendo appello sia ai cittadini come tali sia ai popoli. Potremmo chiamare questo disegno “EUtopia demoicratica”. Un sogno ingenuo e irrealizzabile? Forse. Ma, di nuovo, ricordiamo le parole di Max Weber: il possibile non verrebbe mai raggiunto se nel mondo non si tentasse sempre l’impossibile.

 

Questo articolo è comparso anche su La Lettura de Il Corriere della Sera dell’8 gennaio 2017.

 

 

 

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