Per un governo del mondo

conversazione di Maurizio Ferrera con Vinod Aggarwal

II 15 aprile la Regione Lombardia ha lanciato le «quattro D» in vista della riapertura del 4 maggio. Le quattro condizioni irrinunciabili sono state identificate in: Distanza (almeno un metro di sicurezza tra le persone), Dispositivi (mascherine XT tutti ), Digitalizzazione (lavoro da casa per le aziende che lo possono prevedere), Diagnosi (test sierologici). «La Lettura» ha provato a immaginare «quattro R» che potrebbero incoraggiare l’uscita dall’emergenza: Ricostruzione (la necessità di nuove governarne planetarie in un mondo che sembra volerne fare a meno), Rinascita (una primavera laica), Resurrezione (una primavera dello spirito) e Rinascimento (una primavera dell’arte nell’anno in cui si celebra Raffaello)

Ho conosciuto Vinod Aggarwal negli anni Settanta, quando entrambi studiavamo a Stanford. Un’epoca che, vista dal presente, sembra preistorica. Vinod già allora guardava agli scenari mondiali (suo padre era funzionario Onu) e ha fatto una brillante carriera come studioso di relazioni internazionali, in particolare della globalizzazione economica. Discutiamo di futuro e ricostruzione, sulla scia della «coronacrisi».

MAURIZIO FERRERA — La pandemia Covid-­19 sta causando gravi turbolenze economiche. Restrizioni e lockdown lasciano una scia di pesanti perdite in termini di occupazione e produzione. Le reti globali che alimentano innovazione e conoscenza iniziano a incepparsi. Stiamo entrando in una fase di globalizzazione frammentata?

VINOD AGGARWAL — È probabile. Negli ultimi due decenni le catene di fornitura sono diventate sempre più complesse, ormai materie prime e prodotti a vari stadi di lavorazione si spostano da un punto all’altro sul piano globale. In tempi «normali» ciò garantisce efficienza, in tempi di crisi diventa rischioso. Anche se si riuscisse a riportare il Covid­-19 sotto controllo e la recessione avesse una curva a V, la presidenza Trump (come altri governi) aveva iniziato, già prima della pandemia, a prendere le distanze dalla Cina, a spostare le catene di fornitura altrove e incoraggiare il rimpatrio delle produzioni. La preoccupazione principale riguarda la sicurezza nazionale e i rischi delle cosiddette tecnologie a uso duplice (civipunto all’altro sul piano globale. In tempi «normali» ciò garantisce efficienza, in tempi di crisi diventa rischioso. Anche se si riuscisse a riportare il Covid­-19 sotto controllo e la recessione avesse una curva a V, la presidenza Trump (come altri governi) aveva iniziato, già prima della pandemia, a prendere le distanze dalla Cina, a spostare le catene di fornitura altrove e incoraggiare il rimpatrio delle produzioni. La preoccupazione principale riguarda la sicurezza nazionale e i rischi delle cosiddette tecnologie a uso duplice (civile e militare). Ma c’è anche il timore che Pechino cerchi di accrescere la competitività delle proprie imprese a scapito dei concorrenti stranieri. L’attuale crisi accelererà queste dinamiche e coinvolgerà anche altri Paesi: l’obiettivo di garantire il flusso di forniture bilancerà quello di ridurre i costi. Vietnam e Thailandia hanno già raggiunto i limiti della loro capacità di alimentare le imprese straniere, il vincitore economico della crisi potrebbe essere l’India, se riesce a essere all’altezza della situazione.

MAURIZIO FERRERA — In un’intervista su «le Monde», il filosofo Jürgen Habermas ha preconizzato che la salvaguardia di alcuni beni primari, come la salute e l’integrità fisica, ridiventerà la più importante priorità nelle società europee e che l’esigenza di prestazioni garantite dallo Stato acquisterà precedenza rispetto al principio del «calcolo utilitaristico» sul quale ha poggiato l’egemonia neoliberista. Varrà anche per gli Stati Uniti?

VINOD AGGARWAL — Sì, ma in misura inferiore rispetto all’Europa. I repubblicani e Trump sono a favore dello «Stato minimo» ma la crisi Covid­-19 li ha obbligati ad accrescere l’intervento pubblico per la salute e l’occupazione, classiche priorità dei democratici. Anche se per tradizione gli Stati Uniti preferiscono l’assicurazione di disoccupazione piuttosto che l’assistenza alle imprese, la crisi ha generato un sostegno bipartisan per finanziare le aziende, grandi e piccole. Ora i fondi stanno finendo e nel Congresso si sta giocando una partita dura sul loro rinnovo. Senza dubbio si troverà un compromesso. Nessuno dei due partiti può permettersi di arrivare alle elezioni di novembre con un elettorato pieno di disoccupati. Teniamo però presente, per tornare alla domanda, che le proposte di Bernie Sanders per un massiccio incremento delle spese sanitarie ed educative non hanno riscosso molto sostegno.

MAURIZIO FERRERA — Se Trump vincerà le elezioni dovremo aspettarci un rafforzamento del protezionismo e dell’isolazionismo? Gli Stati Uniti hanno mostrato una notevole riluttanza a favorire, per non parlare di guidare, una risposta congiunta alla pandemia. Ci sono volute la Francia per convocare un vertice del G7 e l’Arabia Saudita per convocare il G20. Anche l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) è in crisi…

VINOD AGGARWAL—Se Trump vince di nuovo, continueranno le spinte verso l’autosufficienza e le pressioni sulle imprese affinché riportino le catene di fornitura negli Usa. Tuttavia non parlerei di semplice protezionismo, ma di «unilateralismo aggressivo». L’amministrazione cercherà, come ha già fatto, di concludere accordi commerciali bilaterali ritenuti vantaggiosi. Il Wto da tempo non funziona bene come arena per i negoziati multilaterali: il round di Doha, iniziato nel 2001, è crollato a tutti gli effetti nel dicembre 2015, molto prima che Trump fosse eletto. Ciò che è grave è piuttosto l’attuale declino dell’organo di risoluzione delle controversie del Wto. L’amministrazione Trump non è stata capace di nominare i giudici di appello in quest’organo. Senza meccanismi di soluzione delle controversie, il commercio mondiale ritornerà sempre più a essere una questione di potere fra Stati.

MAURIZIO FERRERA — Il politologo Ian Bremmer ha evocato pochi anni fa uno scenario cupo, secondo cui la governarne della globalizzazione si sarebbe gradualmente sfilacciata fino a ridursi a un mondo da lui definito «G zero», ossia caratterizzato dalla sparizione di tutti i gruppi di coordinamento internazionale.

VINOD AGGARWAL — Le organizzazioni internazionali sono in grado di conseguire solo quanto gli Stati membri permettono loro. In parole povere, è raro che le organizzazioni internazionali — compresa l’Organizzazione mondiale della sanità, che potrebbe giocare un ruolo rilevante in questa crisi—abbiano la forza di dettare l’agenda agli Stati. Esse offrono linee guida che i governi sono liberi di adottare o no. Dati i vantaggi del coordinamento su questioni che di rado fanno notizia, è molto più probabile che questo ruolo si atrofizzi nel tempo ma sopravviva, piuttosto che scomparire del tutto.

MAURIZIO FERRERA — Parliamo della Cina. Il Partito comunista di Pechino ha salutato il contenimento del virus co­ me un grande successo. Alcuni commentatori occidentali prevedono che la Cina potrebbe essere il vincitore finale della catastrofe Covid­-19.

VINOD AGGARWAL — Dubito che la Cina emergerà come vincitore, nonostante l’incompetenza del presidente Trump nel gestire la crisi. Il trend era già iniziato prima della pandemia ma ora molti Paesi stanno prendendo provvedimenti per impedire ai cinesi di impadronirsi delle aziende nazionali indebolite dalla crisi Covid­-19. Sebbene gli aiuti sanitari arrivati dalla Cina siano stati accolti con favore da molti Paesi, i ringraziamenti dei loro leader sono strumentali, pochi dimenticheranno che il virus è nato in Cina. Pechino non è riuscita a imparare l’arte dell’«influenza politica». Il console generale cinese a Chicago ha recentemente scritto una lettera a Robert Roth, senatore democratico del Parlamento del Wisconsin, chiedendogli di sostenere una risoluzione di congratulazioni alla Cina per la sua capacità di risposta al Covid-­19. Roth è rimasto sbalordito da questo esplicito tentativo di influenzare la politica statunitense e sta predisponendo una risoluzione di condanna per il modo in cui la Cina ha coperto il contagio da coronavirus a Wuhan. Quindi, mentre Trump sta cercando di incolpare l’Oms e la Cina per mascherare confusione e ritardi della risposta di Washington, gli inetti tentativi cinesi di influenzare la politica degli Stati Uniti si ritorceranno contro Pechino, provocando una convergenza critica bipartisan. Più in generale, anche in Africa si sta manifestando un contraccolpo anticinese, lì dove Pechino sembrava essere diventata l’attore economico dominante. C’è anche un sentimento anti­africano in Cina che ha esacerbato l’idea secondo cui Pechino non è molto diversa dalle precedenti potenze coloniali.

MAURIZIO FERRERA — A Bruxelles pochi credono ormai in un rilancio della governance globale. La stessa Ue sta scivolando verso un orientamento introspettivo, più interessato a mettere in atto misure di controllo reciproco fra Paesi piuttosto che a promuovere i loro interessi comuni sulla scena mondiale. Alcuni speravano che, dopo la Brexit, il tandem franco­tedesco avrebbe potuto guidare l’Ue fuori dall’attuale palude. Prendendo atto del disimpegno americano e unendo le forze con Paesi come il Giappone e il Canada (forse una Gran Bretagna pentita), in modo da gettare un salvagente alle strutture di governance globale esistenti. Questo scenario è troppo ottimista? Quale potrebbe essere l’alternativa, non ultimo per proteggerci dalle minacce della possibile progenie di Covid­19?

VINOD AGGARWAL — In linea di massima, se l’Ue e le medie potenze che ne fanno parte fornissero un maggiore sostegno all’ordine economico globale liberale di cui hanno fortemente beneficiato, sarebbe un segnale apprezzabile. Tuttavia, su questo punto non sarei molto ottimista. Gli Stati più piccoli tendono a comportarsi in modo egoistico. In effetti la domanda su «chi paga», se Washington riducesse drasticamente il proprio finanziamento alle istituzioni internazionali, rimane senza risposta. Gli Stati europei, così come il Canada e il Giappone, dovrebbero convincersi che il denaro speso per le organizzazioni internazionali porta più vantaggi di quello speso per le priorità nazionali: sanità, istruzione e welfare. I leader americani che sostengono le istituzioni per la governance globale devono fare oggi i conti con un elettorato che ormai pensa che il proprio sacrificio in termini di prestazioni domestiche — un sacrificio per finanziare le strutture di difesa esterna — non valga più la pena, nonostante la minaccia rappresentata dalle sfide globali sia reale (come mostra la pandemia) e benché il modo più efficace di affrontare tali minacce sia tramite istituzioni globali.

MAURIZIO FERRERA — Dopo averci gettato in una improvvisa e angosciosa incertezza, la «coronacrisi» ci sta ora spingendo a riflettere sullo stato (imperfetto) del mondo che ci circonda. Ci rendiamo finalmente conto di avere raggiunto una interdipendenza profonda, non solo sul piano economico, ma ambientale e persino biologico. Un fatto pieno di potenzialità ma anche di temibili rischi. Non disponiamo però di strumenti di governance che ci consentano di gestire adeguatamente l’interdipendenza. Se non vogliamo (né presumibilmente possiamo) tornare ai compartimenti stagni degli anni Settanta, dobbiamo rafforzare le istituzioni globali. E noi europei non possiamo più sottrarci al compito di pagare la nostra parte del conto.

 

Questo articolo è stato anche pubblicato su LaLettura del 26 Aprile 2020

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